La Santissima Pelle – di Ivano Capocciama

Cos’è un corpo?
Quando nasciamo, il corpo è un petalo di argilla,
una piccola virgola di pelle accartocciata intorno al cuore.
Il corpo si muove in un corpo che lo ospita e lo protegge,
ha fame e si nutre, quando il corpo ospitante ne dà ritmo
e ha sete se la pioggia bagna il volto del suo sacro custode.
E danza e danza, il corpo, insieme al vento caldo,
o trema, il corpo, al freddo di un Gennaio d’aghifogli.
Dalle prime luci dell’alba il corpo è vivo
e forse lo è anche quando riposa il tempo delle carezze
che masticano il corpo e lo flagellano di attenzioni momentanee.
Si ferisce, il corpo, quando piange o ride troppo o si fa.
Il corpo sanguina se certe dita premono forte
o si inabissa come quegli angeli ubriachi che appendono le ali
al vento e le lasciano sanguinare per noia o distrazione.
Il corpo è un canto spento che non si muove se non c’è aria
e non parla, se non c’è motivo.
Il corpo si scopa facilmente tra le gambe
se lo si sa prendere bene, per il verso giusto, altrimenti: il buio.
A volte il corpo non si veste nemmeno, per sembrar più forte
delle intemperie e le intemperie e i frastuoni e le tempeste e le nebbie non colpiscono, il corpo, se la ragione non lo velasse di abbigliamento.

Il corpo non è certo Dio. Dio non esiste come corpo.
Il corpo è fatto di pelle e la pelle è carne e la carne è debole
e debole è la voglia e la voglia è un animale e l’animale è la tigre
e la tigre viaggia con le zampe che sanguinano e macchia la pelle
e macchia la pelle e macchia la pelle con gli artigli
gli artigli gli artigli gli artigli
sono bagnati di inchiostro e vedo
il corpo farsi testo e meraviglia per gli occhi
o schifo per sguardi deformi
o un cazzo per chi non sa vedere…niente…
a parte il canto di carne di cui si vela l’anima
e l’anima odora sottopelle e non sa volare
perché le ali sono ancora appese al vento
e danza il vento vestito di pelle e la pelle danza ammantata di vento
e ulula, la carne, quando qualcuno…bacia…il corpo
e il corpo è un rumore d’inferno o peccato.
Protezione
Sensibilità
Evaporazione
Regolazione termica
Assorbimento
Difesa
Offesa
Attrazione sessuale
Riserva
Ruolo sintetico

Il corpo ha una bocca, due occhi, un naso, due mani, due braccia, due gambe, due piedi, un organo
per la riproduzione, un altro per la digestione, un altro per la respirazione, un altro ancora per il
movimento, un altro per innamorarsi e un altro ancora per pensare.
Il corpo non esiste se non è posto in gioco attraverso il processo vitale. Una notte… sognai un corpo morto che galleggiava sul dorso del mare.
Lo fotografai dalla mia finestra… quella sera avevo preferito restare a casa, non avevo voglia di uscire o di raggiungere la tipa che vedevo, in quel periodo. Preferii restare a casa. Di solito, la
domenica, godevo nel raggiungere la casa al mare dei miei. No, non v’impressionate! Non sono una fottuta pariolina del cazzo che gioca a fare la trasgressive e poi va in vacanza al mare nella casa dei
suoi genitori. I miei avevano una casa lontano dalla spiaggia. Più verso gli scogli. Era una casa modesta: due camere, un bagno, una cucina e una cantina… forse un rifugio antiatomico. In sintesi,
la casa dei miei si poteva descrivere dagli odori: lenzuola bagnate, piscio, merda, pollo andato a male, muffa. C’erano troppi odori in quella casa. Ogni stanza aveva un suo odore. Era impossibile
sbagliarsi. Quando ero bambina, mio padre per chiamarci gridava forte “Ehi, ragazzina, va dove c’è quella puzza di lesso e avvisa tua madre che in quella merda del cesso non c’è più sapone!”. Si
parlava per odori. Anche i miei capelli e la mia pelle s’imbevevano di quegli odori: spesso i miei capelli sapevano di frittura di pesce, o di bistecca bruciata o di melanzane tagliate come tante clitoridi. Mia madre le chiamava così: le ninne. Non ho mai capito cosa cazzo significasse quel nome odioso. Ogni volta che le preparava per cena, mi sembrava di fare del buon sesso orale con quaranta o cinquanta ragazzine nere sulla spiaggia di Acapulco. Forse è da lì che ho capito di essere lesbica. Ho sempre preferito le patate. Non parlo dell’ortaggio, è ovvio. Forse perché amavo le caverne. Il pene non mi diceva niente. Un totem. E a me gli indiani mi sono sempre stati sul cazzo, soprattutto in quei film color ittero della domenica mattina. La casa al mare dei miei è stata il tempio della mia iniziazione sessuale. Non so se ringraziare mia madre o l’ortolano. Lesbica grazie alle melanzane! Sembra uno slogan femminista o feticista. Ecco, un piccolo ricordo della casa al mare dei miei, dove mi trovavo quella sera. Ero stanca e non avevo fatto niente, proprio niente.
Era piuttosto fastidiosa come cosa. Non la sopportavo quella stanchezza. Camminavo per casa come un idiota ubriaco. Non avevo bevuto nulla. Avevo solo fatto l’amore la mattina presto con la mia tipa dell’epoca. Era una fricchettona sui venti. Un addome da paura e due piedi bianchi e troppo, troppo bianchi per essere profumati. Sarebbe stato troppo bello. Era il suo unico problema. Forse l’odore di quei fottutissimi piedi mi aveva stancata. Quella sera, infatti, non avevo proprio voglia di fare un cazzo. Serata tranquilla: una canzonaccia di Kurt Cobain, forse “Smells like a teen spirit” o qualche stronzata del genere… una birra calda, vaffanculo… e la macchina fotografica.
Passeggiavo per 
casa con i piedi bagnati di sudore… forse era luglio… ero nuda, come sempre… mi piacevo…abbastanza… ma non ero una di quelle che si sditalina davanti allo specchio… Mi guardavo e questo mi bastava. Ero appoggiata alla finestra opaca… forse erano le sei del pomeriggio o giù di li… Ho fumato e spento le sigarette sul vetro: tre o quattro o ventisei, boh… Forse quel vetro era opaco per colpa mia. M’ero accorta presto che la mia apatia nello sguardo mi aveva fatto scorgere qualcosa, lontano, verso il mare piuttosto mosso. Ho cercato di aprire la finestra ma era bloccata dal vento forte. Se l’avessi aperta si sarebbe scatenato l’inferno dentro casa e mia madre, la settimana dopo, si sarebbe incazzata con me. Ho guardato bene e ho visto quel corpo… L’avevano abbandonato sul mare. Forse avrei dovuto chiamare la polizia. Non l’ho fatto. L’ho beccato.
Forse 
c’era un po’ di quella schifosa filantropia di merda che mi avrebbe spinto il giorno dopo a correre dall’ufficiale giudiziario, spiattellargli in faccia la fotografia e sperare in una ricompensa. Un bel gruzzolo mi avrebbe fatto bene, soprattutto all’epoca. Non avevo un soldo. È stato strano.
Non ho 
visto nessun ufficiale giudiziario il giorno dopo. Ho scattato e vaffanculo. Ho guardato spesso quella foto, la notte. Non perché fosse bella. Non valeva un cazzo. Avevo fatto di meglio. Per, boh, c’era qualcosa di fottutamente bello. Un corpo morto sul mare! Cristo, beccarlo è stato… è stato… orgasmico! Una figata, insomma! Come quando si riesce a fotografare l’arcobaleno…ecco… a culo… e dura così poco!… La notte l’ho passata così. Guardavo il mio arcobaleno steso nudo sul mare. Che poetessa che sono, eh!? Poi ricordo d’essermi addormentata. Il giorno dopo mi svegli il vento. La fotografia era sempre nelle mie mani. Mi capita di addormentarmi come una cogliona. Qualcosa mi resta sempre in mano. Guardai la foto.
(pausa 
lunghissima) Oddio… il corpo non c’era più… era sparito…rimasi a pensare… e dove Cristo era andato a finire? Non ci pensai più… tanto quella foto non valeva un cazzo. Non ricordo neanche come fosse quel corpo… Da lontano pareva un pesce. Per ricordo cosa sognai quella notte… mio padre che mi insegnava a fare il morto a galla…(ride)…
– Pianoforte.
E dormivo con la pelle che bruciava e restava coperta di malattie rare.

La pelle si ammala facilmente.
Lesione da pressione.
Ulcera.
Ustione.
Ragadi.
Fistole.
Ferite da taglio.
Ferite da punta.
Ferite lacere.
Ferite contuse.
Ferite lacero-contuse.
Ferite da arma da fuoco.
Contusione.
Abrasione.
Ecchimosi.
Ematoma.
Escoriazione.

Verruca.
Infiammazione purulenta.
Ascesso o Apostema.
Empiema.
Flemmone.
Patereccio.
Foruncolo.
Favo.
Idrosadenite.
Erisipela.
Cisti.
Cheloide.
Tumori.
Carcinoma.
Melanoma.
Adenoma.
Papilloma.
La favola dell’airone: c’era una volta un airone che si smarrì in una strada di campagna e venne
sciolto nell’acido.
La favola dell’ape: c’era una volta un’ape che rimase chiusa a chiave nel cassetto del vecchio
custode del cimitero e lì morì.
La favola della lepre: si fecondò da sola e mise al mondo un sosia.
La favola del filo d’erba: rimase schiacciato dalla merda del bue da qualche parte, nel Texas.
La favola del pavone: si sforzò troppo di aprir la coda nel tentativo di imitare il sole e morì d’ictus.
La favola del topo bianco: s’invaghì di un granello di polvere grigia e lo cercò per tutta la
soffitta…e continua ancora a cercare.

La favola delle anatre: un tempo furono soldati di bronzo, custodi di un tempio antico, che furono
massacrati da una tempesta di uova marce.
La favola del grillo parlante: un libro di sole pagine bianche da leggere, in silenzio.
La favola del bambino senza mani: le lavò troppo.
La favola del carro di burattini: ogni giorno rischia l’incendio e così tutte le storie raccontate furono
cantate col ferro e lo scudo.
La favola del martire: ci sono tanti modi per perdere la testa.
La favola della stella mattutina: un cane la ritrovò riflessa in una pozzanghera in cui, poi, venne a
lavarsi il sole.
La favola del cantante cieco: non si vede mai dove stia cantando e la sua voce paia venga dappertutto.
La favola del foglio di carta: qualcuno ci scrisse su la favola del foglio di carta.
La favola del cigno: ti trafisse il cuore per noia, sul lago ghiacciato, mentre ascoltava Tchaikovsky.
La favola del dolore: uno spillo sulla fronte.
La favola del volo: è vertigine.
La favola del vino: un odore d’alito amaro.
La favola del vaso d’argilla: si ruppe dopo la tempesta, per una distrazione delle mani.
Le mani:
ordine e misura del cosmo,
gioielli malati che imitano il vento,
voci frementi o ciglia troppo lunghe.
Sulle mani ho saputo ascoltare i primi suoni del tempo e dello spazio.
Sulle mie mani ho appeso mille e mille anelli nuziali.
Sulle stesse mani ho cantato la poesia più antica, per un esercito di sordomuti.
Ho spento le mani mentre leggevo il libro della stanchezza.
Ho sentito le mani vibrare col sangue per i movimenti incodizionati. E scatto con le dita, e blocco il
mondo e lo fermo per sempre, forse per ricordarlo spento e lontano. Ho tessuto un universo, con le
mani. Bianconero di stelle emerse dall’aria gelida o dal rimmel che sporca le ciglia. Sono veleni, le
dita. Ne ho sentito l’odore quando le unghie si sporcavano. Nella danza le dita si fanno parole.
Ricordo un’immagine: la regina del mare morto… una figura della danza Butho…e la spirale
inaspettata… un oceano di visioni di carta… il cavaliere abbandonato che cade ad ogni cespuglio di
fragole… Ci sono dei tramonti che non dimentico:
e piovono le carezze sul viso fermo della mia sposa
e piovono senza far rumore
ho paura di svegliare la mano che dorme al mio fianco
ho smarrito le carezze, da qualche parte…
Le ricordo tutte, le carezze… mi legavano le mani e mi accarezzavano anche quando non ne avevo
voglia… ogni carezza aveva un nome…non ho mai saputo guardare il viso della persona che mi
accarezzava… avevo paura si sporcasse di eyeliner… le lasciavo fare… solitamente gettavo lo
sguardo da un’altra parte… non amavo guardare chi mi toccava. Per me le carezze erano un modo come un altro per ammazzare la noia. A volte mi fotografavo mentre qualcuno mi accarezzava il
seno… Di solito preferivo che fossero ragazze a farlo… ma poi col tempo le cose sono cambiate…
le mani degli uomini hanno forza, quelle delle ragazze sembrano ciglia, invece. Come se tante ciglia
mi stimolassero là dove sentivo meglio la forza e la morte. Certe mani le ricordo tutte… e ad ogni coppia davo un nome… lo stesso per entrambe le mani. Le mani sono gemelli separati dalla nascita
che si ritrovano allo scoccare delle carezze… Le carezze mi hanno insegnato a saper cercare l’angolazione giusta per lo scatto. Su ogni carezza lasciavo cadere i miei sguardi indiscreti.
L’obiettivo è come l’occhio interiore: ti lascia vedere ci che gli occhi non sentono. È strana la vista… tocca anche l’immateriale… per questo è più vicina al tatto. Se fotografi le mani che ti
toccano riesci a sentirti viva. Ogni carezza aveva uno scatto… Chi premeva troppo forte aveva scatti veloci e chi si muoveva delicatamente si meritava un trattamento diverso… l’obiettivo si muoveva sulla delicatezza come un occhio stanco cerca di vedere ci che accade anche da dietro i vetri opachi del sonno. Vaffanculo… quant’è rumoroso lo scatto… a volte dimentica anche i momenti più romantici. Si intrufola tra le mie gambe e mi sa prendere per davvero. È uno stupratore della domenica, a volte… (come se parlasse ad una bambina)
Ti aspetta nell’ombra, come gli assassini dei film dell’orrore… e ti taglia la gola… devi stare attenta… Non si esce mai soli, di notte… è pericoloso… e rischi di perdere la strada che ti porta a casa… hai paura… tanta paura… e poi incontri il lupo cattivo… quello che esce, di notte, per toccare il culo delle ragazzine e ti aspetta dietro il vicolo nero nero… e ti chiede “dove vai a quest’ora?”… “la tua mamma dov’è?”… “sarà in pensiero per te”… “chi è la tua mamma?”… “fammelo un bel sorriso”… “tocca qui”… “e fammelo
un bel sorriso”… “non devi piangere”… “T’ho vista mentre piangevi, all’Inferno, mentre una voce ti forava l’udito e tutti dormono”… chi ti fotografa ti parla come un maniaco del cazzo…
– Forse un carillon.

Non sapevo che facesse tanto male quando vieni fotografata nuda. All’inizio, a quindici anni compiuti, pensavo fosse un fottuto piacere… ma dopo… ho scoperto il contrario… il flash è
terribile… tanti flash sono come tante lame che ti feriscono la carne e ti lasciano imputridire nella luce. Hai presente gli obitori, no? Quelle stanze bianche dove tu riposi per sempre e tutti ti
fotografano marcire? Ecco… La sensazione è quasi quella… Quando mi fotografano penso alla mia tortura più sublime… Tanti coltelli che mi entrano dentro… e non mi lasciano respirare… sento il
freddo, le lame e il sangue puzzare allo stesso modo… Sembra… arrugginito, il sangue, quando puzza… la pioggia che bagna il ferro o lo specchio del cesso sporco di rossetto… Un giorno, ho
provato a scrivere il mio nome sullo specchio… poi l’ho cancellato dopo averci sputato contro… era un miscuglio di odori, come la casa al mare dei miei: la saliva… il vetro dello specchio… il rossetto… e forse qualche lacrima… Solo il rossetto può permettere alle mie labbra di pronunciare
il mio nome…(passa due linee di rossetto sulle labbra bianche)… Il mio nome si pronuncia con un sorriso stramaledetto, che ti si stampa in faccia, come una ferita… Ultimamente sui giornali leggo
solo di ventenni che vengono rapite, sodomizzate, derubate e poi uccise… La morte mi sta accanto
ad ogni flash… la mia faccia stampata sui giornali, il miracolo di un flash idiota… è strano
rivedersi, in foto, dopo che il corpo ti viene trafitto da tutta quella luce… nemmeno San Sebastiano
aveva tante ferite sul corpo come me, dopo ogni posa… Io per non sanguinavo… troppe volte
m’hanno ferita, ma non ho mai perso una goccia di sangue… Solo una volta ho sentito dolore…
quando mi sono cosparsa il corpo di miele… Non ero io in quel momento… era qualcuno… forse quello stupratore della domenica che si chiamava… obiettivo… Scendeva con le sue mani pesanti
su questa carne bianca e fragile… e spingeva… arrivato lì… con tutta la forza che aveva… Mi fece male… e poi mi fotografò dicendomi: “Dammi questa sensazione che hai appena provata!”… Gli sputai in faccia… lui si pulì la saliva col dito medio e se la spalmò sulla lingua… Mi sembrava d’aver fatto con lui la stessa cosa che feci contro il mio nome scritto col rossetto sullo specchio…
Lui era la mia faccia… il mostro che con un sorriso pronunzia il mio nome… ed io lo odio quel sorriso… è solo uno scherzo il mio nome…
CON GLI OCCHIALI DA SOLE: Chi sei?
SENZA OCCHIALI DA SOLE: Una tipa qualsiasi…
CON GLI OCCHIALI DA SOLE: Perché ti vedo dappertutto?
SENZA OCCHIALI DA SOLE: Ti piaccio…
CON GLI OCCHIALI DA SOLE: Sei così sicura?
SENZA OCCHIALI DA SOLE: Ti piace guardarmi…
CON GLI OCCHIALI DA SOLE: Mi piace sapere che tu t’accorga di me mentre ti guardo…
SENZA OCCHIALI DA SOLE: Ti piace, la mia pelle?
CON GLI OCCHIALI DA SOLE: È una buona merce…
SENZA GLI OCCHIALI DA SOLE: La mia pelle è una voce…
Ave o mia pelle, piena di grazia…
Tu sia benedetta nei secoli dei secoli…

Lasciati guardare ad ogni ora del giorno e della notte.
Ti marchier con l’ombra e col vento,
e ad ogni fremito d’ali
come un angelo ti porter tra le ultime stelle infrante e appese al cielo.
Ho scritto qualcosa sulla mia pelle coi pezzi di vetro della finestra rotta:
Quando mi guarderete,
dimenticatemi subito.
Non posso vivere nel vostro pensiero.
Forse dopo che mi avranno rifatto la faccia.
Fatemi a pezzi!
Ricucitemi!
Tagliatemi
e poi ricucitemi di nuovo!
E tu non guardarmi,
neppure quando dormirai accanto a me,
ma non credo che questo accadrà.
T’ho detto mille volte di venire
e mille altre volte ho cambiato idea…
Vaffanculo.
Tu sei lontano,
ed io non voglio che tu mi guardi!
Addormentati da qualche altra parte,
il mio viso ancora sanguina
e non emana un grande odore.
Se ti faccio schifo,
fuggi via da qui.

 

Ivano Capocciama

 

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LA SANTISSIMA PELLE – di Ivano Capocciama

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Collective Waste

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