RECENSIONE/RACCONTO di “THIS MUST BE THE PLACE”

Prendete il nostro regista orgoglio nazionale Paolo Sorrentino e il camaleontico intenso attore americano Sean Penn. Dal loro incontro è nato uno dei film più straordinari che abbia mai visto. Straordinario proprio nel senso etimologico di extra – ordinario per come tratta un tema così usato e abusato nella cinematografia come quello dell’Olocausto. Straordinario perché ad una storia portante se ne intrecciano altre minori ma non meno significative che anzi partecipano allo scioglimento dei nodi e alla risoluzione finale della vicenda. Sean Penn è Cheyenne, star del dark rock ormai in pensione, che passa le sue giornate nella sua casa-castello di Dublino in compagnia della volitiva moglie oppure in compagnia di una ragazzina, Mary, probabilmente proiezione della figlia che non ha mai avuto. L’ex rock star vede ormai la musica come qualcosa che non gli appartiene più. Da più di 20 anni non sale su un palcoscenico e, sebbene il suo aspetto ancora tipicamente darkettone faccia pensare il contrario, non ha alcuna intenzione di tornare a suonare “quel pugno di canzonette lugubri” che tanto vendevano a cavallo tra i 70s e gli 80s sull’onda del movimento dark e metal. E c’è un motivo profondo che gli fa rinnegare il suo passato musicale: Cheyenne si sente responsabile della morte di alcuni ragazzini che si uccisero perché depressi, perché magari incalzati dalle tematiche di oscurità, annientamento e morte che certa musica adottava. Un peso enorme che sente sulla coscienza e di cui non riesce a liberarsi. E allo stesso modo non si libera del suo personaggio, quasi imprigionato in quella “maschera” fatta di abiti neri, cerone, rossetto e smalto scuro. Tra sensi di colpa e amarezza passa il suo tempo, tentando di fare qualcosa per gli altri… si mette in testa di far fidanzare Mary, il cui fratello è stato una delle “vittime” di quella musica, con un giovane cameriere. Lo fa perché vorrebbe vederli felici ma ben presto prende atto che è impossibile mettere insieme un ragazzo triste e una ragazza triste..che la tristezza è inconciliabile con altra tristezza. Tutto questo nella prima parte del film che quindi si pone come un affresco di una ex rock star che né si libera del suo pesante personaggio né si ricicla nel presente. Interverrà poi un evento esterno a dare un diverso ritmo alla storia facendoci scivolare nella seconda parte del film che assume la forma tipica di un road movie. La notizia dell’aggravarsi delle condizioni del padre, con cui Cheyenne aveva interrotto ogni rapporto da più di 30 anni, spinge il protagonista a tornare in America nel tentativo di rivedere il genitore prima che muoia. Non farà in tempo. Arrivato in quella che era la sua casa da bambino troverà tutti i suoi parenti impegnati nei rituali funebri tipici della religione ebraica. Sul letto del padre defunto Cheyenne capisce che deve fare qualcosa per lui. Con il diario che raccoglie le memorie del padre sugli orrori del nazismo tra le mani, si mette in testa di scovare il criminale che gli aveva inflitto pesanti umiliazioni mentre era nel campo di concentramento. Lanciandosi così in un viaggio attraverso i luoghi più sperduti e dimenticati degli States allo scopo di vendicare i torti subiti dal padre. La ricerca del criminale nazista diventa speculare alla ricerca del senso della sua esistenza. Nelle strade che batterà in vista della meta finale incontrerà vari personaggi, tante microstorie che si intrecceranno con la sua. Dalla sua professoressa a cui chiederà perché ella non avesse mai trattato in maniera approfondita ed esaustiva il tema dell’olocausto (in fine si scoprirà che la donna è la moglie del criminale che stava cercando) all’inventore del trolley con cui chiacchiera in un bar. E poi la giovane madre che,vicina ad una base militare, tra difficoltà e crisi di rabbia cresce da sola suo figlio. Un tenero bambino che compie il “miracolo” momentaneo di far riavvicinare Cheyenne alla musica: per lui strimpellerà la chitarra suonando “This must be the place” dei Talking Heads mentre il bimbo con tanto di fotografia del padre (militare deceduto) la canta. La scena più toccante del film, a mio parere. E forse anche la più catartica: Cheyenne tocca con mano il rapporto padre-figlio e sente il dolore per quel figlio che non hai mai avuto e per quel padre che aveva perso già tanti anni prima che morisse… Cresce nel protagonista il desiderio di vendicarsi di chi umiliò il padre ed arriva a comprare un’arma per uccidere quest’uomo. Potente la scena nel negozio di armi dove il venditore esalta la capacità di uccidere impunemente della pistola con il silenziatore (qui vi si legge una critica alla facile cultursean penn this must be the placea delle armi, tipica americana). Dunque la nostra ex rock star, coadiuvata da un amico del padre che aveva dedicato la sua intera esistenza alla ricerca dei criminali nazisti, si appresta a raggiungere la remota località dello Utah dove risiede l’aguzzino. Entrerà nella sua casetta di legno e qui troverà un uomo anziano e fragile ma con ancora negli occhi quella fierezza disumana inspiegabile eppure reale. Quest’ uomo si racconta o meglio racconta a Cheyenne le stesse pagine di quel diario che aveva già letto. Pagine che il criminale conosceva bene perché la sua vittima per tutta la sua esistenza lo aveva “tormentato” scrivendogli di continuo, raccontandogli tutte le sensazioni di privazioni ed umiliazioni che la vita in un campo di sterminio comportava. Un’umiliazione in particolare il padre del protagonista non potè dimenticare: quando il suo aguzzino gli scatenò contro un pastore tedesco per spaventarlo e lui, terrorizzato, si urinò addosso. Questa l’umiliazione che aveva ossessionato il padre per il resto dei suoi giorni, questa l’umiliazione che Cheyenne sente di dover vendicare. E lo fa in maniera diversa da come ci si poteva aspettare. Quella pistola non verrà mai usata. Diversa sarà la “punizione” . Mentre Cheyenne risale in macchina per andare via da quel posto vediamo che dalla casetta di legno esce l’anziano criminale. Tutto nudo, cammina nella neve. Fragile, indifeso, umiliato. Come lo furono tutte le vittime dell’Olocasuto. Quello che era stato un aguzzino ora si mette realmente nei panni delle proprie vittime. Non può esistere giustizia più grande di questa e Cheyenne lo sa. Non vendetta ma giustizia, anche se troppo tardi. Compiuta la sua missione, dato un senso alla sua esistenza, il nostro protagonista torna finalmente a casa. Ora è libero dall’ingombrante fardello del personaggio che era e dai rimorsi che lo attanagliavano. Si spoglia della sua maschera da dark rock star. Perdona se stesso. Capisce che “il dolore non è la destinazione finale”.

Sara Fabrizi

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