CCR: Pendulum

Autore: Creedence Clearwater Revival

Titolo Album: Pendulum
Anno: 1970

Casa Discografica: Fantasy Records
Genere musicale: rock

Voto: 9
Tipo: LP

Sito web: http://www.creedence-online.net/

Membri band:
John Fogerty – chitarra, piano, sassofono, voce
Tom Fogerty – chitarra ritmica
Doug Clifford – batteria
Stu Cook – basso

Tracklist:
1. Pagan Baby
2. Sailor’s Lament
3. Chamaleon
4. Have You Ever Seen The Rain?
5. (Wish I Could) Hideaway
6. Born To Move
7. Hey Tonight
8. It’s Just A Thought
9. Molina
10. Rude Awakening, No.2

Pendulum, sesto album dei CCR, penultimo lavoro della loro breve, iperattiva, folgorante carriera. Critica e pubblico da sempre divisi nel valutare quest’album così “schizofrenico”, così completo, così ricco di spunti, di generi, di suoni, di strumenti (persino i fiati!), così deviante (eppure rispettoso) dalla rassicurante formula Creedence di un rock basico che frulla insieme country, folk, blues, soul e ce li restituisce insieme in un sound che è il rock, per le masse e per gli esperti, per tutti semplicemente potentemente rock. John Fogerty, voce e leader assoluto, qui rafforza addirittura la sua leadership. Lui qui è tutto: autore di tutte le musiche e testi. Qui come mai negli album precedenti sfodera tutta la sua grinta di polistrumentista. Un album apice della sua vena creativa, il canto del cigno. Qualche dissidio interno con il fratello Tom, da sempre insofferente all’eccessivo protagonismo di John, porterà il maggiore dei Fogerty ad abbandonare la band. Dopo Pendulum la creatività di John si affievolisce, ma come dargli torto? In soli 4 anni era stato fonte inesauribile di meravigliose azzeccatissime canzoni, creatore della “rock Creedence formula”, era stato contaminatore di generi, aveva riportato in vita (revival!) pezzi della tradizione blues, folk e rock’n’roll donando loro nuova vita e respiro. Aveva spianato la strada ai cantautori successivi. Non curiamoci del fatto che fosse un po’ arrogante, quale genio non lo è? Godiamoci questo viaggio track by track in questo suo e loro sesto folgorante lavoro.
L’album si apre con Pagan Baby. Come ci hanno abituati i Creedence, l’overture è col botto. Oltre 6 minuti di un rock duro e puro. Gridato, fino allo spasimo, da far accapponare la pelle. La stridula e potentissima voce di John si innesta su un rock veloce e con diversi cambi di tempo. Chitarre decisamente roots, alla Byrds maniera. Una vera swamp-boogie song. Una lunga coda strumentale che trova la sua soluzione in semplici ed efficaci assoli di chitarra, in decisi colpi di batteria e in alcuni urli di John da far invidia ad una voce nera. Il secondo brano è Sailor’s Lament. Pezzo insolito: un bel connubio di rock e musica etnica, con dei cori vagamente soul-gospel. Qui niente chitarre, ma un bel sax (suonato da John) che conduce il gioco insieme alla tastiera elettronica. Un pezzo quasi esotico che anticipa di 15 anni l’etno-pop di Paul Simon. La voglia di sperimentare del leader John inizia a toccare terreni inusuali. Il terzo brano è Chamaleon. Decisamente rhytm’n’blues. Fresco, essenziale e rassicurante. Messo qui quasi per ricondurre il discorso su binari più consueti, dopo l’estraniamento prodotto dal pezzo precedente. Il quarto brano non necessiterebbe di presentazioni. E’ semplicemente la hit delle hit. Amata e coverizzata da altre band ed artisti sino allo sfinimento. Have You Ever Seen The Rain? Una ballad country-pop semplicissima ma efficace. Ed indelebile. Celebre, popolarissima, che nonostante il suo uso ed abuso non perde il suo fascino. Sarà per la sua costruzione semplice e circolare che ti entra dentro. Per il grido finale e liberatorio di Fogerty. Leggera, ma nemmeno tanto. Si legge tra le righe un velato messaggio antimilitarista: siamo in piena guerra del Vietnam e la pioggia di cui si parla non è quella meteorologica probabilmente, ma quella scaricata dai B-52. Il quinto brano è (Wish I Could) Hideway. Sublime ballad, intrisa di abbandono. Drammatica , nel senso più puro del termine. Una gran prova per la voce di Fogerty, qui dolce e suadente pure negli acuti. E per il suo hammond , per il quale il cantante stava attraversando il periodo di fascinazione, che qui conduce il gioco e vince decisamente sulla chitarra. Il sesto brano è Born To Move. Un altro trascinante rythm’n’blues. Piacevolissimo. Con un riff discendente che rivela strofe decisamente funky, e l’ammirazione di Fogerty per James Brown. In pochi pezzi come in questo John si discosta dal rock delle paludi, dalle roots, per esplorare nuovi mondi. E scopre il funk. E si diverte. Con la tromba e con l’hammond. Ma qui si divertono tanto anche il bassista Cook e il batterista Clifford, autori di una sezione ritmica efficacissima ed incalzante, che fa dimenticare il loro ruolo di subalternità al leader John consacrandoli come eccezionali musicisti. Il settimo brano è Hey Tonight. Un rock’n’roll riuscitissimo. Un boogie travolgente con una costruzione semplice e un ritornello “ossessivo”. Qui la voce armonizzate e potenti di Fogerty formano un vero e proprio muro del suono contro cui rimbalziamo all’ascolto. Efficace a dir poco come pezzo. Forse però un po’ troppo “power pop”. Rivelatore, a mio parere, di ansia da scalamento di classifiche. Ma fra tante perle un brano di “defaticamento” che strizza l’occhio al commerciale ci sta. L’ottavo brano è It’s Just A Thought. Altra ballad bellissima. Colma di malinconia e delicata apprensione. Struggente ma mai melensa. Triste ma fiera. Anche qui l’hammond gioca una grande parte. Ma anche la batteria e il basso scandiscono a perfezione questo dramma dell’anima, fornendogli respiro e forse soluzioni. Voce potente, as usual, ma al contempo dolce. L’assolo di hammond che dissolve nella batteria e poi nel basso ci regala una chiusura mesta ma serena. Nono brano è Molina. Un altro incandescente rock’n’roll che ci mostra appieno l’abilità di Fogerty di rielaborare le lezioni del passato per creare hit da classifica che rendano il rock alla portata di tutti. Un motivetto facile facile, di cui non ti liberi più. Interessante il sax che ci fa percepire qualcosa di “esotico”, ossia un po’ deviante dalla formula Creedence di cui il brano in questione è l’ultimo forte esempio sia in ordine cronologico che in questo album. Infatti la chiusura è affidata ad un brano che io definisco pazzesco. Diverso, estraniante, sperimentale e sperimentatore. Rude Awakening #2 è un pezzo interamente strumentale che strizza l’occhio al progressive rock. I primi due minuti sono piacevolissimi, raffinati, coinvolgenti, melanconici e valgono decisamente tutto il resto della canzone che poi si perde in divagazioni e sperimentazioni para-elettroniche che definirei spaziali e gratuite. Fatichiamo a capire cosa c’entri questo brano con il resto dell’album, e con il resto della loro produzione musicale. Ci lascia un po’ perplessi ma al contempo ci cattura. La bellezza dell’hammond, della chitarra, del basso, della batteria, nei minuti iniziali (il pezzo dura oltre 6 minuti) fa da contraltare a quella psichedelia un po’ troppo psichedelica che si dipana dopo. E che ci fa pensare che Fogerty volesse quasi fare il verso ai Pink Floyd. John non ci aveva abituati a cose del genere, per questo ne restiamo spiazzati. E’ in questa sua forte voglia di sperimentare andando decisamente oltre che si coglie quanto la creatività del suo genio non ce la facesse più a restare imbrigliata nella formula vincente che egli stesso aveva inventato. Rude Awakening è davvero il canto del cigno. John Fogerty vuole decretare la fine di ciò che aveva costruito e lo fa in grande stile. Inoltre l’album non contiene alcuna cover, a differenza di quelli precedenti. Altro chiaro e forte segno che qualcosa era cambiato.

Sara FabriziPendulum

Rispondi

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.