Simon & Garfunkel: Sounds Of Silence

Autore: Simon & Garfunkel

Titolo Album: Sounds Of Silence
Anno: 1966

Casa Discografica: Columbia Records
Genere musicale: folk rock

Voto: 8
Tipo: LP

Sito web: http://www.simonandgarfunkel.com/
Membri band:
Paul Simon – voce, chitarra
Art Garfunkel – voce
Glenn Campbell – chitarra
Hall Blaine – batteria

Tracklist:
1. The Sound Of Silence
2. Leaves That Are Green
3. Blessed
4. Kathy’s Song
5. Somewhere They Can’t Find Me
6. Anji
7. Richard Cory
8. A Most Peculiar Man
9. April Come She Will
10. We’ve Got A Groovey Thing Goin’
11. I Am A Rock

Il secondo album del già emblematico duo folk arriva nel 1966. Non un anno qualunque, bensì l’anno della maturazione del rock americano. Escono nel 1966 Pet Sounds, Revolver, Blonde On Blonde. Tutti album cruciali che segnano, nella discografia e nell’approccio all’arte dei relativi autori, la fine dell’età dell’innocenza e della spensieratezza per approdare alla riflessività ed inquietudine dell’età adulta. Ed è anche un passaggio epocale: il decennio 60s dopo lo splendore dei primi anni rivela le sue contraddizioni, le sue falle, le sue inquietudini, le sue ombre. La guerra del Vietnam e un pubblico di giovani non più giovanissimi, ma ormai adulti, che non ancheggiano più dinanzi ai juke box a suono di rock’ n ‘roll ma che riflettono, contestano, fuggono dalla realtà. E la Musica come sempre diventa specchio della società, delle sue istanze, delle sue richieste. In questo contesto calza a pennello il folk rock soave ma a tratti amaro di Simon & Garfunkel. L’album precedente, Wednesday Morning, 3 A.M., come noto, non fu un successo immediato anche se pose le basi per il loro futuro e forgiò il loro stile unico. Ed è con questo primo album che il secondo condivide una canzone, The Sound Of Silence. Embrionale, scarna, solo voci e chitarra acustica la versione del ’64, elettrificata e con l’aggiunta di altri strumenti la versione del ’66. Una nuova versione voluta dalla casa discografica che aveva subodorato che hit sarebbe potuta diventare se “ammodernata” secondo l’elettrificazione a cui il folk rock stava cedendo in quel periodo. E così fu. Paul e Arty ci si ritrovarono quasi dentro e batterono questa strada. Il periodo che Paul Simon aveva trascorso in Inghilterra ne alimentò la vena poetico-compositiva e ne affinò la tecnica durante le sue esibizioni nei club inglesi. L’uggiosa Gran Bretagna con le sue atmosfere malinconiche e rarefatte fu fertile humus per le storie intimiste raccontate dal nostro cantautore e che non aspettavano altro che incontrare la voce soave di Art Garfunkel. Nacque così Sounds Of Silence. 11 tracce registrate nel dicembre del 1965 presso i CBS Studios di Nashville e pubblicate il 17 gennaio 1966. L’intero album è pervaso da un’atmosfera autunnale, da un forte richiamo alla ciclicità delle stagioni della vita, dal passaggio dalla giovinezza spensierata al disincanto dell’età adulta. Un suono dolce ed avvolgente che veicola storie che, per contrasto, raccontano del freddo dell’anima, delle disillusioni, della solitudine. Lo avevano intuito bene i nostri folksinger che aria tirava. Avevano capito che di fronte alle inquietudini che stavano facendo capolino nella società del periodo i giovani avrebbe avuto voglia di fuggire. E avrebbero cercato altrove la loro dimensione, chi nella psichedelia, chi nelle droghe, chi in un forte impegno sociale, chi in un mondo quasi incantato dove solo poter riflettere e leccarsi le ferite. E quest’ultima dimensione esistenziale è quella a cui apre la musica di Simon & Garfunkel. Ogni pezzo di Sounds Of Silence è intriso di questo sentimentalismo amaro, di questa perdita di ingenuità, di questa maturazione socio-musicale. The Sound Of Silence apre l’album ed è, come già detto, il singolare caso della title track. Forte della sua malinconia aggraziata e del suo accattivante impatto elettrico diventa un pezzo miliare del folk rock. Ed esprime meglio di qualunque altra canzone al mondo il tramonto di un’era, la desolante atmosfera della “fine della festa” (o dell’estate) in cui ormai tutti sono andati via: sono rimasti solo due ragazzi (vedi la copertina dell’album), una chitarra e il silenzio che li avvolge nel freddo della notte, trasportandoli in un mondo poetico e visionario. Il secondo brano è Leaves That Are Green, un pezzo più esuberante ma comunque emblematico del rapido trascorrere del tempo. Ricorre alla classica immagine delle foglie autunnali che celano il ricordo di amori perduti, di una passata stagione in cui le foglie erano ancora verdi e il cuore era pieno d’amore. Il suo ritmo delicato ricorda le composizioni dei menestrelli medievali. Una lieve allegria, o meglio una malinconia più serena, che veicola un tema non propriamente allegro. Il terzo brano è Blessed. Un bel ritmo, belle le chitarre elettriche e la batteria. Un bel crescendo. Sta maturando il nostro duo e qui dà prova di saper suonare il rock. Il quarto pezzo è Kathy’s Song. Meravigliosa ballad, il ricordo di un amore perduto. Suoni morbidi ed acustici, malinconia evocativa, vero momento di estasi artistica. Un brano che si cuce addosso a Paul e Arty come una seconda pelle. Il quinto pezzo è Somewhere They Can’t Find Me. Qui si parla della fuga dagli uomini, della preferibilità della solitudine. Il tutto reso da una ritmica incalzante e da un sax che conferisce vigore. Il sesto brano è Anji. Interamente strumentale, forse una prova, riuscitissima, del virtuosismo e della tecnica di Paul Simon. Il settimo pezzo è Richard Cory. Si narra la storia di questo Richard e le sue inquietudini. C’è il tema della fuga, non solo dagli uomini ma anche dalla vita stessa. A veicolare ciò ci sono chitarre e batteria incalzanti e una decisa prestazione vocale di Arty. L’ottavo pezzo è A Most Peculiar Man. Qui torniamo nell’alveo della dolcezza malinconica resa da armonizzazioni vocali lievi ma incisive e perfette, come sempre. Quindi giungiamo al nono pezzo, April Come She Will. Breve, struggente, brano a metà fra una filastrocca per bambini e una storia incantata. Un pezzo che tratta il tema della ciclicità delle stagioni reso simbolicamente dal racconto di un amore che sboccia in primavera per concludersi in autunno. Ripreso da una canzone popolare, una ninna nanna, che si perde nella notte dei tempi, ha questo sapore agrodolce di una nostalgia quasi atavica, quasi connaturata alla caducità della vita stessa. A mio parere uno dei massimi vertici espressivo-evocativi del folk rock. Merita di essere trascritta tutta: “April come she will when streams are ripe and swelled with rain;
May, she will stay, resting in my arms again. June, she’ll change her tune, in restless walks she’ll prowl the night; July, she will fly and give no warning to her flight. August, die she must, the autumn winds blow chilly and cold; September I’ll remember a love once new has now grown old.”
Il decimo brano è We’ve Got A Groovey Thing Goin. Unica vera concessione dell’album al rock’n’roll di cui ripropone le ritmiche e le espressioni tipiche (“Baby, baby”). Ma si percepisce qualcosa di amaro, nel testo ma anche nella musica, che si pone in stridente contrasto con lo spirito tipicamente gioioso e leggero del rock’n’roll. A chiudere l’album è I Am A Rock. Il termine rock non si riferisce al genere musicale, bensì alla semplice e nuda roccia. L’elemento naturale che tenta di resistere agli urti della vita. Metafora della perdita di sensibilità, dell’indurimento, della mancanza di sentimenti che spesso sopraggiungono dopo aver sperimentato i dolori della vita. Esseri umani reificati allo stato di una roccia. Uomini che, pur di non soffrire più, scelgono di diventare freddi e insensibili, trovando nella poesia l’unico conforto. “ I am a rock, I am an island..”. “ And a rock can feel no pain, and an island never cries”. Un canto di resa, di abbandono. Una musica delicatamente ritmata e a tratti allegra cela una riflessione amara. Contrasto stridente ma stupendo. I nostri due timidi folksinger sono cresciuti e ora sfornano veri capolavori.

Sara Fabrizi

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