Il volto trasformista del Rock: David Bowie

zigg ystardustUn camaleonte musicale, un artista eclettico, a dir poco. Un dandy caduto sulla terra. L’esempio vivente e ancora cantante di come il rock si possa piegare a tutti i trends, a tutte le mode, a tutte le correnti e a ben 4 decenni musicali. Strategie per vendere che funzionano molto bene se ancora oggi è produttivo. Ma anche semplicemente strategie per essere: personaggio , icona, trasformista, percorritore e precursore dei tempi nell’immaginario collettivo.
Può rientrare in molte definizioni, e al contempo vi sfugge, David Robert Jones. Nato nel 1947 a Brixton, da giovanissimo è un inquieto ragazzino della middelclass che si barcamena fra sogni e studi nel sobborgo londinese. Cresce nella “swingin” London e ne assorbe il fervore musicale. Il giovane è affascinato dalla sfavillante scena rock dell’epoca (Beatles, RollingStones, Pink Floyd, Who, Animal, Yardbirds). Canta, suona il sax e prova a sfondare alla guida di gruppi underground come Manish Boys, The Konrads, King Bees e Buzz. Sogna di diventare il nuovo Little Richard, suo idolo fin dall’infanzia. Infanzia che era stata in qualche modo segnata dalla malattia del fratellastro malato di schizofrenia (il giovane David era terrorizzato dalla paura di impazzire anch’esso) e da uno scontro con un compagno di scuola che gli lasciò la pupilla dell’occhio sinistra dilatata, conferendo al suo occhio un colore particolare, diventato poi segno distintivo. Il giovane David vive in quella Londra che egli stesso definì una” polveriera” per le droghe e gli eccessi che già imperversavano. Pronto ad assorbirne ogni tendenza, ogni sfumatura, ogni battito. Ossessionato dalla smania di cogliere ogni nuovo trend musicale e di costume e viverlo sulla sua pelle.
Nel 1966 il manager Kenneth Pith gli suggerisce di adottare il cognome Bowie per evitare confusioni con Davey Jones dei Monkees.L’avventura solista, però, stenta a decollare. Bowie non sa decidersi tra la strada maestra del folk britannico (ma anche dylaniano), le tentazioni psichedeliche della “Summer Of Love” californiana e il revival rhythm’n’blues dell’epoca. Il suo primo album, David Bowie, uscito per la Deram nel 1967, smaschera queste contraddizioni, mostrando un cantautore ancora molto acerbo e zoppicante. Una recitazione clownesca alla Anthony Newley impregna ballate come “Uncle Arthur”, “Rubber Band” e “Love YouTillTuesday”. Ma sono poco più che artigianali divertissement. La più genuina testimonianza di quel Bowie è semmai la Deram Anthology, che, oltre al suo brano migliore dell’epoca (“London Boys”), contiene la curiosa “Laughing Gnome”, il vaudeville di “The Gospel According To Tony Day” e una prima, embrionale versione di “Space Oddity”. Nella “sbornia” musicale londinese Bowie è confuso ed inquieto. Eppure nel 1969 questo gracile folksinger trova una sua strada, fondando un nuovo standard di canzone e dando vita a uno dei suoi pezzi rock più classici e più belli. La “vecchia” “Space Oddity” trova la sua confezione perfetta negli arrangiamenti sinfonico-psichedelici di Paul Buckmaster e la sua collocazione storica ideale nelle celebrazioni del primo sbarco sulla Luna. Il brano ha una struttura spettacolare: ad un avvio sinistro, scandito dalla voce di Bowie persa nello spazio, fa seguito un improvviso sussulto dello stylophone, quindi un ritornello epico e struggente, trascinato dal mellotron di Rick Wakeman, e una coda strumentale dissonante. Ispirata dal film “2001 Odissea nello spazio” di Stanley Kubrick e incentrata sulla saga dell’immaginario astronauta Major Tom, “Space Oddity” è la prima ballata spaziale della storia del rock e la capostipite di quel filone fantascientifico che diverrà una delle chiavi di volta del repertorio bowiano. Il successo è immediato e planetario, al punto che spinge Bowie a realizzarne perfino versioni in altre lingue.
Nel frattempo, Bowie è cresciuto anche come cantante e performer. Decisivo l’incontro, avvenuto il 14 luglio 1967, con il mimo-ballerino Lindsay Kemp, primo atto di una lunga collaborazione che si protrarrà negli anni. “Da lui – racconterà – ho appreso il linguaggio del corpo; ho imparato a controllare ogni gesto, a caricare di intensità drammatica ogni movimento; ho imparato insomma a stare su un palco”. Non a caso Bowie è stato anche uno dei primissimi musicisti a concepire il rock come “arte globale” (pop-art?), aprendolo alle contaminazioni con il teatro, il music-hall, il mimo, la danza, il cinema, il fumetto, le arti visive.C’è un quartetto sul palco del Roundhouse di Londra la sera del 22 febbraio 1970. Si chiamano Hype e pestano sugli strumenti come forsennati. La chitarra di Ronson è il loro totem, ma a catturare l’attenzione è l’effeminato cantante dalla chioma riccioluta, abbigliato in vesti di seta multicolore. E’ nei suoi panni che David Bowie, seppellito il timido menestrello folk degli esordi, imbocca definitivamente la via di un rock sensuale e ambiguo. E’ uno degli snodi decisivi della sua carriera, presto seguito dalla pubblicazione del nuovo album, The Man WhoSold The World (1970), che segna di fatto l’inizio della stagione migliore di Bowie. Nasce un sound duro e saturo, una sorta di “hard-soul-rock”, dominato dai rimbombi del basso, dalle sciabolate della chitarra, da un lungimirante Moog e dal canto strozzato di Bowie. Quest’ultimo appare per la prima volta in abiti femminili nella copertina (censurata negli Usa) e scrive testi grotteschi, in bilico tra un futurismo orrorifico e il mito nietzschiano del Superuomo. Bowie matura un’estetica che ha nell’ambiguità e nel trasformismo le armi più affilate.
Il primo capolavoro della decade è Hunky Dory (1971), in cui Bowie sposa apertamente il glam-rock esploso in Inghilterra sull’onda dei T. Rex di Marc Bolan. E’ il tempo dei “dudes”, neo-fricchettoni che trasformano i barbosi raduni eco-pacifisti dei loro cugini hippie in uno sfrenato festival del kitsch. Che sia “peace and love”, insomma, ma senza più vincoli politici o ideologici di sorta. Trionfano così il disimpegno, il travestitismo e l’ambiguità sessuale, in un profluvio di lustrini e paillettes, boa di piume e rimmel, stivali e tutine spaziali. “Rock’n’roll col rossetto”, lo ribattezzerà John Lennon. Ma non è solo glamquel che luccica inHunky Dory: pop scanzonato, atmosfere malate tipiche deiVelvet Underground, folk d’ascendenza dylaniana impreziosiscono il disco. Un album che finalmente gli fa conquistare la critica, ma non gli basta. In testa ha un obiettivo preciso: diventare famoso ed esserlo i n maniera assolutamente unica. E vi riuscirà, con una determinazione quasi feroce, più vicina alla visione lucida di uno scienziato che all’ingenuo utopismo dei rocker post-sessantottini. Mentre, infatti, il rock si autocelebrava nelle grandi adunate pacifiste o nelle comuni hippie, Bowie si specchiava nel suo camerino alla ricerca della giusta maschera per incantare il pubblico. La risposta verrà dalla combinazione impossibile tra un essere interstellare e un attore del teatro giapponese Kabuki. Il primo, grande personaggio della sua galleria. Nasce così Ziggy Stardust. Un alieno in calza maglia, dalla chioma color carota e dal trucco da drag queen. Un essere kitsch che sembra uscito da un fumetto di fantascienza trash. E’ il “ plastic rocker”, la cui ascesa e (auto) distruzione si pone come il tema centrale del concept-album “The Rise and Fall of Ziggy Stardust and The Spiders from Mars”.E’ lui “l’uomo che cadde sulla terra”, il messia di una rivoluzione rock che dura una stagione sola, il tempo che passa tra la sua ascesa e la sua caduta. E in questa parabola c’è tutta la rappresentazione dell’arte di Bowie: la messa in scena del warholiano “quarto d’ora di celebrità”, l’edonismo morboso di Dorian Gray, la parodia del divismo e dei miti effimeri della società dei consumi e, non ultimi, i presagi di un cupo futuro orwelliano. “Extraterrestre”, e quindi libero dai tabù sessuali che incatenano l’umanità, Ziggy polveredistelle è la quintessenza dello spirito glam.E’ la maschera che incorpora tutti gli stereotipi del rock filtrati attraverso la lente grottesca del glam. Una caricatura del divo, destinato a essere idolatrato dal pubblico e stritolato dallo star-system. L’album alterna ballate romantiche e rock’n’roll elettrificati e tiratissimi, al limite del punk.Bowie non si prende mai sul serio: le sue canzoni sono uno sberleffo alla morale bacchettona, un saggio di trasgressione ironica e, spesso, di puro nonsense. Ziggy è l’uomo delle stelle, invocato nella ballata spaziale di “Starman”, una delle melodie più leggendarie di Bowie. La saga di Ziggy impazza in tutto il mondo e fa resuscitare in classifica anche alcuni suoi predecessori, oltre a imporre uno standard di glam-rock universale che consente a Bowie di trasformarsi in produttore per “Transformer” di LouReed e “RawPower” degli Stooges dell’amico Iggy Pop. La trasgressione è un ingrediente fondamentale: Bowie rivela a Melody Maker di essere “sempre stato gay”, si dichiara bisessuale in diretta sulla Bbc, si traveste da donna e inaugura ufficialmente la stagione dell’ambiguità nel rock. Con Bowie, per la prima volta, la sessualità si liberava di ogni barriera. Diveniva perversa e complessa, “di un altro pianeta”, e quindi indefinita e mutagena: come uno dei tanti abiti da cambiare in scena.
Una saetta multicolore che scocca in pieno viso, un lieve cambio di make-up, e l’epopea glam può proseguire un anno dopo su Aladdin Sane (gioco di parole da “A Lad Insane”). Se non venisse dopo “Ziggy”, sarebbe da accogliere come un altro grande capolavoro. L’unico suo limite, infatti, è la riproposizione di un suono che aveva già raggiunto il suo apice nel disco precedente. “Ziggy in America”, lo ribattezzerà Bowie, ponendo l’accento sull’anima prettamente “rock’n’roll” che lo pervade. Con Aladdin Sane si celebra anche il requiem dell’era glam. Bowie ha intuito che la scena glam-rock è ormai asfittica, incapace di rinnovare la freschezza degli albori. E’ inquieto e volubile, cerca nuove sfide, nuovi pianeti da esplorare. Così, alla fine del tour di promozione dell’album, compie un gesto simbolico e plateale: si sbarazza del suo ingombrante alter ego Ziggy Stardust facendolo “morire” sul palco e sciogliendo gli Spiders From Mars. Il coup de theatre nasconde in realtà il pragmatismo di un artista che, uccidendo il personaggio che gli aveva regalato l’anelata celebrità, sa cogliere l’intima essenza delle dinamiche che governano i comportamenti del pubblico rock, che sotterra artisti con la stessa velocità con cui li osanna: Bowie non ha alcuna intenzione di restare schiacciato da un personaggio che avrebbe ben presto stancato il pubblico. Il successo, però, continua ad arridergli. Aladdin Sane raggiunge il n.1 nelle classifiche britanniche, così come Pin-Ups, raccolta di cover in stile glam-rock che pesca nel repertorio sixties di band come Pink Floyd , Them , PrettyThings, Who, Kinks e Yardbirds.
Che per Bowie sia però un momento di transizione, se non di crisi vera e propria, lo conferma il successivo Diamond Dogs (1974), polpettone fantascientifico e orrorifico, ispirato dal romanzo “1984” di George Orwell, nonché caratterizzato da una sconcertante copertina in cui Bowie si trasforma in un essere mostruoso, metà uomo, metà cane. I “diamond dogs” sono i sopravvissuti a una catastrofe atomica che ha ridotto l’uomo nella condizione di cane demente, gli abitanti di un mondo ormai marcio e fatiscente, soggiogato dal Grande Fratello. Pur pretenzioso e tronfio (oltre che volutamente kitsch), il progetto conferma la lungimiranza di Bowie, che coglie in anticipo quale sarà l’umore strisciante della futura generazione new wave: la paura di un futuro tecnologico e disumanizzante, che relega l’uomo a una condizione di minorato mentale.Dopo Ziggy, anche il Bowie glamorous è ufficialmente morto. Quello che rinasce è un dandy che ha smarrito per strada zatteroni, paillettes e un bel po’ di mascara, ma ha conservato un look ambiguo e inquietante. La nuova frontiera musicale, già lambita in alcuni arrangiamenti del “Diamond Dogs Tour”, è l’America, specificatamente quella del funky, del rhythm’n’blues e della nascente disco-music del Philadelphia Sound.Manifesto di questo ibrido “plastic-soul”, caldo come la black-music ma anche vagamente robotico, è la titletrack di Young Americans (1975), che si snoda su pulsazioni disco, con piano e sax in evidenza. Tutto il disco è in realtà un esercizio di stile.Nonostante il disorientamento del pubblico Young Americans venne celebrato dalla stampa, forse un po’ troppo enfaticamente, come “il primo disco di soul nero inciso da un musicista bianco”.
Attirato dalle sirene dello show-business e del cinema, nel quale debutta con una parte nel film di Nicolas Roeg “The Man WhoFell To Earth” (1976), Bowie si stabilisce a Los Angeles, dove inizierà uno dei periodi più cupi e drammatici della sua esistenza. North Doheny Drive, Bel Air, a un passo dalla villa dove nel 1969 i satanisti di Charles Manson uccisero cinque persone, tra cui l’attrice Sharon Tate. E’ qui che il futuro Duca Bianco sprofonda in pieno caos narcotico, preda di pusher e strozzini, oltre che dei suoi stessi demoni. Il suo matrimonio è in dissoluzione, i rapporti con i manager sono burrascosi, la sua esistenza sembra sul punto di implodere. Scheletrico ed emaciato come un vampiro metropolitano, si ritira nel suo appartamento, prigioniero delle sue fobie. Ma proprio durante quei giorni californiani, in deliranti session al lume di candele nere bruciate per allontanare gli spiriti, nasce un disco rivoluzionario come Station To Station (1976) che dà il la a un’altra, ubriacante stagione musicale. E come sempre, nuovo disco nuovo personaggio. Nasce così il “Duca Bianco”: pantaloni neri a pieghe, panciotto e camicia bianca, capelli rosso-biondi impomatati e tirati all’indietro. Un essere algido e aristocratico, alienato dalla paranoia urbana e isolato nel suo mondo di musica robotica. Laddove Young Americans aveva fallito, restando pura astrazione formale, Station To Station centra in pieno il bersaglio, amalgamando il rock chitarristico con l’elettronica. Con la mente proiettata al futuro, il Duca Bianco scrive testi criptici, ispirati alla cibernetica e a sistemi fantatelevisivi. Disco dolente, impregnato di una simbologia oscura e inquietante, Station To Station è la testimonianza della peculiare “via crucis” americana di Bowie. Il successivo tour abbandona gli eccessi del passato con scenografie scarne d’ispirazione brechtiana, illuminate da gelide luci bianche al neon. Bowie ospita sul palco Iggy Pop, appena dimesso dall’Istituto di Igiene mentale. Distrutti dall’avventura americana, i due ex “fratelli chimici” si ritroveranno in Europa, dove per entrambi comincerà una nuova vita.
Terminata la tournée, Bowie si trasferisce con Iggy Pop a Berlino, dove è subito attratto dall’atmosfera mitteleuropea della città. In questo scenario, matura la celeberrima trilogia Low-Heroes-Lodger, frutto del sodalizio con Brian Eno.Low ha aperto moltissime porte allo sviluppo del rock: gli anni 80 e la new wave tutta senza questo disco non sarebbero di sicuro stati gli stessi. Bowie riesce a fondere in maniera originale cultura europeae afro-americana arrivando all’abbattimento definitivo delle barriere transculturali e realizzando uno dei suoi dischi più veri e profondi.Per il successivo capitolo della saga, Heroes, negli studi Hansa by the Wall di Berlino si costituisce un team stellare: oltre a Bowie (alle prese con voce, tastiere, chitarre, sassofono e koto), ed Eno, ci sono Robert Fripp (chitarrista e leader dei King Crimson, nonché autore con lo stesso Eno di due album che possono definirsi vere “macchine del tempo”), Carlos Alomar (chitarra), Dennis Davis (percussioni) e George Murray (basso). Inebriante allucinazione, tra onirismi, sonorità ambient, sintetizzatori e vibrazioni visionarie, Heroes lascia trapelare qua e là anche qualche raggio di luce, laddove Low era solo nera tragedia. Costruita sull’intreccio tra i magici ricami della chitarra di Fripp e le monotone, ossessive armonie di Eno, “Heroes” è soprattutto uno dei saggi più illuminanti del melodismo bowiano. La voce del “Duca Bianco” raggiunge vette d’intensità straziante. E’ il grido disperato dell’ultimo romantico sulla Terra che, tra le macerie di un mondo in sfacelo, implora la sua donna di non andarsene, perché “we can be heroes, just for oneday”; ma al tempo stesso è consapevole che quell’amore finirà nello stesso momento in cui sarà vissuto (“thoughnothingwillkeepustogether…”).Amalgamando la sensibilità decadente di Bowie, il genio obliquo di Eno e il chitarrismo spericolato di Fripp, Heroes segna un traguardo formale del processo di ibridazione di rock ed elettronica d’avanguardia.Nel maggio 1979, chiude la trilogia il sottovalutato Lodger, che ripiega su una forma-canzone più convenzionale.
Con l’inizio della decade 80 Bowie imbocca una fase di declino. Gli anni 70 erano stati per lui pieni, esaltanti, irripetibili, tanto da valergli la nomina di artista più influente del decennio. Dal 1980 in poi la carriera di Bowie scivolerà via quasi sempre in discesa, alternando clamorosi flop a sporadici sussulti del genio che fu.Dopo alcune partecipazioni cinematografiche e qualche show a Broadway, Bowie ritorna in studio nel 1981 per la sua collaborazione con i Queen nella canzone Under Pressure e per il tema musicale del remake del film “Cat People”. Nel 1983 firma un contratto miliardario con la EMI Records e realizza Let’s Dance, che diventa il suo album di maggior successo anche grazie allo style innovativo dei video per “Let’s dance” e “China Girl”, entrambe canzoni che entrano nella Top Ten. Una vera e propria svolta commerciale a cui seguiranno anni di crisi creativa e di flop discografici. E così sarà per tutto il suo “decenniohorribilis”.
Nel 1993 Bowie si dedica nuovamente alla propria carriera solista. Esce il sofisticato Black Tie White Noise, che purtroppo subisce una sorte sfortunata perché la casa discografica con cui viene realizzato ,la Savage , dichiara bancarotta subito dopo la pubblicazione e del disco non si ha più traccia. Il 1995 è l’anno della reunion con Brian Eno: la collaborazione tra i due porta alla realizzazione di Outside, indicato dalla critica come un ritorno alle origini rock di Bowie. L’artista supporta infatti anche i Nine InchNails in tour nel tentativo, purtroppo fallito, di conquistare un pubblico alternativo.
L’eclettico artista torna nuovamente in studio nel 1996 ed esce con Earthling, album molto influenzato dal genere techno e dal drum’n’bass. Di tre anni più tardi è Hours. Nel 2002 viene pubblicato Heaten in cui Bowie ritrova la collaborazione con il vecchio produttore Tony Visconti, che realizza il successivo Reality, che esce nel settembre 2003.David Bowie torna sul mercato discografico nel 2006 dopo alcuni problemi di salute, un’operazione per un angioplastica che lo aveva costretto a interrompere il tour del 2004. Si tratta però non di un nuovo disco, ma di una raccolta intitolata “David Bowie-Seriousmoonlight”, che contiene i pezzi “Space oddity”, “China girl”, “Breaking glass” e di “Young Americans”, che accompagna un omonimo DVD, testimonianza del tour del 1983. Mentre tutti lo davano per ritirato, l’8 gennaio del 2013, il giorno del suo 66simo compleanno , arriva a sorpresa l’annuncio del ritorno: un nuovo singolo, “Where are wenow?” e un nuovo album, The NextDay, prodotto da Tony Visconti, pubblicato il 12 marzo.L’immagine e la musica di questa ennesima reincarnazione, avvalorate dal singolo “Where Are WeNow?” , che ha anticipato di due mesi questa uscita, sembravano suggerire la presa d’atto dell’essere umano che getta la maschera e che, in splendida malinconia, piega il capo verso il crepuscolo. Tutto drammaticamente realistico, peccato che l’ascolto di The NextDay faccia emergere la figura di un artista tutt’altro che dimesso, con voglia e ispirazione sufficienti per stupire, e non certo con armi tali da suscitare compassione.
Gli anni passano, tramontano effimeri miti musicali, ma David Bowie, nel bene e nel male, resta. “Una tela nera sulla quale la gente scrive i propri sogni”, come scrivono Fred Frith e Howard Howe nel saggio “Art Into Pop”. Forse è vero che Bowie non si potrà mai capire, ma solo seguire nelle sue zigzaganti traiettorie, nella sua sincera artificiosità. Perché i suoi personaggi sono sì il diaframma che continua a frapporre tra sé e il mondo, ma anche le testimonianze più verosimili della sua personalità. Gli indizi di un enigma che, a quasi quarant’anni dall’esordio, resta ancora tutto da decifrare.

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