Il concerto di Calcutta a Frosinone – una recensione molto molto personale

Premessa

Mi piace la musica di Calcutta. Credo anzi che ci sia un punto irriducibile contro cui è destinata ad infrangersi qualsiasi nuova teoria sulla musica di questo ragazzo di Latina: i pezzi funzionano e lo fanno benissimo, in particolare quei due tre che ti incollano magicamente al destino suo (di Calcutta) e forse, chissà, anche di quello della città di Latina.

Svolgimento

Entro nell’Affekt Club munito di prevendita intorno alle ore 22 di ieri sera. Davanti a me si para un’umanità variegata. La tentazione sarebbe quella di soffermarmi sul gabberino in tuta acrilica che ha colpito la mia attenzione sin dai primi minuti, o magari su alcuni amici molto simpatici che ho incontrato durante la serata e con i quali ho avuto talvolta delle esilaranti conversazioni a partire da spunti del tutto inventati. Lo farei pure, se non fosse che il 90% dei partecipanti al concerto sembra essere composto in parti uguali da hipster quindicenni e altri hipster quindicenni ancora più hipster dei primi.
La cosa mi sorprende a tal punto che, accasciato al suolo, mi sento, improvvisamente, vecchio.
Superati i postumi di questa sempiterna scoperta umana, mi dirigo a pochi passi dal palco, facendomi largo tra pastrani e monocoli camuffa acne. È lì infatti ad aver avuto inizio un dj set che richiederebbe una recensione a parte. Un dj set destinato a imprimersi indelebile nella mia attenzione di osservatore che, proprio durante quei fatidici momenti, inizia a partorire l’idea che è poi alla base di questo articolo.
Il deejay è Gaetano, lo stesso Gaetano del titolo della canzone del cantautore pontino che di lì a poco si esibirà sul palco (se non l’avete capito, il mio gioco sarà proprio quello di mantenere questo lessico freddissimo tra il poliziottesco e il guardingo, con un sano scetticismo di matrice alleniana, che dovrebbe risultare insidiosamente fastidioso, almeno secondo le mie intenzioni).
Il signor Gaetano è vestito in maniera molto appariscente. La musica che mette è un meraviglioso panegirico degli anni ‘80, sospeso tra pezzoni clamorosi di musica disco (del decennio precedente), Daft Punk (Lose yourself to dance, come se non ci fosse un domani) e bordate syntharole che evocano all’indietro Com Truise e, en avant, un certo gusto kitsch con coloriture vapor.
Mi diverto come un matto, spesso da solo, a saltellare quei ritmi gioiosamente vecchi perché fondamentalmente sono anch’io un subdolo sostenitore dell’edonismo anni ’80, tutto Craxi e Prima Repubblica. Noto un certo fervore nel 90% hipster presente in sala (cambio del monocolo, ora sull’occhio destro), che ha visto gli anni ’80 – per non parlare dei ’90 dove ho iniziato timidamente a compiere i primi passi della mia esistenza – solo in una meravigliosa cartolina spedita dalla Cortina del 1987. È proprio a suon di “Buon 1987” che, scambiate quattro chiacchiere con il mio amico Carlo (cantante degli At The Weekends e grande estimatore delle scempiaggini più turpi del decennio reaganiano in salsa italica), mi accingo all’ascolto dei brani di Calcutta, che, in men che non si dica, irrompe nella sala con una terribile camicia a righe e infila due o tre pezzi chiave per capire questo interessantissimo cantautore (che, ripeto, ha suonato ieri a Frosinone).
Sarebbe inutile, financo pernicioso, imbeccare di sviolinate e buoni propositi per il futuro questo bravo ragazzo*, ma non ci si può esimere dal dire, in questa e in altre sedi, che il suo seguito, esploso così, dans l’éspace d’un matin, non può venir liquidato come una semplice moda per Millenials bimbiminkia (credevate proprio che l’avrei detto, eh? E invece non l’ho fatto, perché non lo penso neanche minimamente).
In nuce si tratta di un’artista che sa fare le sue canzoni. Sono oggetti liberi di camminare da soli, se non di correre. E non è poco, è tutto. Soprattutto se sei un cantautore alla primissima esperienza (e la cosa si vede ed è bellissima). Queste canzoni potremmo rischiare di ricordarle un giorno. Ed è per questo che io, da infimo osservatore, quale sono, non ho potuto esimermi (verbo che torna e ritorna in questo mio pezzo) dal dire che questa cosa è passata da qui, da Frosinone, dalla città che dà il titolo a uno dei suoi pezzi più azzeccati.
Se son rose fioriranno, intanto stasera quelle rose eventuali sono passate in Ciociaria ed io c’ero. E tanti altri insieme a me. Ed è stato divertente, credo non solo per me. Per cui ho sentito l’esigenza, già durante il dj set in apertura come vi dicevo, di farvi questa inutile recensione del concerto dove in realtà non vi dico niente del concerto ma vi abbandono alle mie puntuali, infide, personalissime considerazioni sconclusionate, facendovici sguazzare come studentelli alla ricerca di un perché.
In sala cantavano tutti, anche io che quei pezzi li avrò visti tre volte su Youtube (solo perché mia madre mi diceva di non andare su altri siti). E io sono un caso umano della memoria, sia a breve che a lungo termine. Per cui fidatevi, se le ricordo io, vuol dire che un giorno le ricorderete anche voi. E allora verrete a chiedermi perché e inizieranno lunghi dibattiti e io vi risponderò, come ora faccio, che sì, si possono pure imputare a Calcutta le due guerre mondiali e il buco dell’ozono ma resta un fatto innegabile: questo ragazzo sa fare una cosa sola. Sa fare canzoni. Sono oggetti indovinatissimi. Ci possono non piacere, ma continuano a funzionare.
Ecco perché anche adesso ve lo giuro che torno a casa e mi guardo un film, “L’Ultimo dei Moicani”, non so di chi.
Questa frase e un centinaio di migliaia di riff che ho ascoltato stasera si sono infilati irrimediabilmente nella mia corteccia celebrale. E io, uno che sa fare una cosa del genere, se suona a Frosinone, se ha scritto pure una canzone su Frosinone e che parla del Frosinone in Serie A, io, ragazzo della periferia del mondo, LO VADO A VEDERE.
L’ho visto, ieri, e ascoltato, all’Affekt, per cinque euri.
A Frosinone.
E ho intenzione di ricordarvelo a lungo.

*Nel corso della serata ascolto e talvolta dico una quantità abominevole di giudizi lapidari e tranchant tra i quali spiccano su tutti:
1) “Tra trent’anni sarà quel fenomeno di costume che tutti oggi conosciamo con il nome di Vasco Rossi” (vietato leggere sfumature canzonatorie);
2) è come se Mac DeMarco fosse nato a Sezze;
3) Mi ricorda Antonello Venditti.

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