Kungens Män – Chef (2019)

Gli Uomini del re vengono da Stoccolma, sono in giro dal 2012 e hanno sfornato una quantità di dischi che i King Gizzard & the Lizard Wizard al confronto sono dei principianti. Ventidue, stando agli archivi di Rate Your Music. Una valanga di note che ha radici ben salde nello space rock e nell’improvvisazione radicale, in quei territori dove la musica è un viaggio e un’esplorazione, dove è bello e sano giocare con i drone, gli effetti e l’ipnosi.

C’è di che perdersi, insomma, da qualsiasi punto la si approcci. Noi però, per renderla un poco più semplice (e perché ci interessa il qui e l’ora), la prendiamo dalla fine, da questo disco partorito poco più di un mese fa dalla benemerita etichetta inglese Riot Season. Un disco che trasuda rock e improvvisazione, composto da quattro lunghe jam (per circa quaranta minuti di durata) che partono calme ma poco rilassate, ricolme di quell’ansia sottotraccia che solitamente s’accompagna ai ronzii che si ripetono e si avvolgono, alle atmosfere cupe e alle ritmiche motorik (impressionante quella di Fyrkantig böjelse). Partono calme, si diceva, e poi esplodono in battaglie spaziali con raffiche di wah-wah (da brividi quelle ossessive di Öppen för stängda dörrar) e distorsioni. Oppure s’imbarcano da subito sulla navicella in tempesta, tuffandosi a capofitto con le chitarre cariche e affilate in un gorgo di rumori (Män med medel). Oppure, come nella traccia di chiusura Eftertankens blanka krankhet, inducono l’ipnosi con una linea di basso ripetuta fino allo sfinimento e ci costruiscono sopra edifici di melodie che profumano d’oriente.

Non è affatto un disco facile e immediato questo “Chef” (no, la cucina non c’entra nulla, chef significa «capo» in svedese), ma nemmeno un pippone aristocratico senza capo né coda. È un viaggio non previsto che richiede la giusta dose di attenzione (e se ci mettete la giusta dose di qualcos’altro non fate nessun danno), dal quale si esce felici e un po’ storditi.

Dieci band hard rock di oggi alle quali i Greta Van Fleet possono al limite al limite allacciare le scarpe

Greta Van Fleet
Due GVF si stanno chiaramente abbassando per allacciare le scarpe a qualcuno

Pare che il mondo – be’, insomma: il mondo degli ascoltatori delle Virgin Radio di ogni latitudine – stia letteralmente impazzendo per i Greta Van Fleet, la hard rock band americana che si è fatta notare in questi ultimi due anni per… la sua pallida imitazione dei Led Zeppelin. È inutile andarci coi guanti di velluto, perché comunque la si giri, davvero, c’è poco altro da annotare sulla musica dei GVF. A meno che non si decida di essere veramente cattivi. Fatto sta, comunque, che questa palese inutilità artistica sembra aver allertato i «parrucconi» della Recording Academy e la band è finita in nomination come «Best New Artist» per i Grammys 2019, la cui cerimonia di premiazione si svolgerà dopodomani, 10 febbraio.

È da un po’ di tempo che mi capita di leggere o sentire cose del tipo «ok, sono uguali ai Led Zeppelin, ma almeno suonano cazzo», oppure «era tanto che non si ascoltava del buon rock», «dài, almeno fanno hard rock». È così forte e invadente, questa forma di pigrizia che inibisce persino le ricerche su google, youtube e spotify, che i santi tipi di Brooklyn Vegan hanno pensato di avvertire questi dispensatori di «almeno» del fatto che in giro esistono un sacco di band hard rock (almeno dieci) alle quali i Greta Van Fleet possono al limite al limite allacciare le scarpe. E sul serio, ne esistono davvero tante, tanto che il lavoro di chi intenda fornire alternative si rivela molto presto un lavoro di sottrazione: la fatica, cioè, non è trovarne almeno dieci, ma elencarne solo dieci. Ti trovi a dover scegliere e tagliare.

Ecco, il senso di questo post sta nel fatto che il sottoscritto, pur avendo condiviso le (giustissime) premesse di quel post, si è trovato male con le scelte e i tagli. In particolare, mi è parso che Sacher (l’autore dell’articolo) abbia stiracchiato un po’ troppo il concetto di hard rock: va benissimo archiviare gli anni Settanta, non possiamo portarceli eternamente come fardello, però se fai un articolo di questo tipo devi anche considerare il target al quale ti rivolgi. Dare in pasto a questo target Screaming Females e Hexvessel, per dire, è come cacciarli e ributtarli tra le braccia dei GVF. E allora ho pensato di buttar giù una lista alternativa, elencando dieci band moderne di hard rock «classico», qualsiasi cosa voglia dire questa definizione. Godetene!

All Them Witches: sciamani dello stoner rock di questo ultimo decennio, autori di un heavy psych dai decisi connotati blues, hanno affilato le armi disco dopo disco, dando vita a un desert (hard)rock dal forte impatto emotivo, arso dal sole, che si presenta oggi come una delle cose più convincenti in ambito hard & heavy. Se dovessi dire come suona l’hard rock alle soglie degli anni Venti del XXI secolo, farei il loro nome e metterei su i loro due recenti album Sleeping Through the War e ATW.


Clutch: attivi fin dall’inizio degli anni Novanta, hanno attraversato l’ultimo decennio del secolo scorso macinando uno stoner rock/metal durissimo e aggressivo, scrivendo una delle migliori pagine di quell’epopea. Poi hanno iniziato a incamerare blues e il loro suono si è addolcito e fatto più classico, pur mantenendo una forte aggressività di fondo. L’esempio migliore di questo «corso» è l’album Earth Rocker, del 2013.


Datura4: Dom Mariani è uno che ha qualche anno di esperienza, avendo militato in una quantità di storiche band power pop che viene il mal di testa a fare i conti. Un momento: power cosa? Sì, pop, ma qualche anno fa ha messo su i Datura4 e ha deciso di darsi al blues rock di matrice hard, cercando di riportare in vita la lezione dei santi Cream. È roba da maestri quello che potete ascoltare sui due dischi usciti ad oggi (Demon Blues e Hairy Mountain) adornato di melodie che più belle e memorabili era veramente difficile scriverne.


Dommengang: è bastato un disco di furiose jam (il primo, splendidamente intitolato Everybody’s Boogie), ai Dommengang, per capire dove andare a parare. E con il secondo lavoro, Love Jail, hanno asciugato il fiume di fuzz trovando il senso e le radici di tutto, un blues rock duro come la roccia e caldo come il soul: una cosa che sta da qualche parte tra i Free e gli Humble Pie, con un’anima da jam band e un impeto invidiabile, una sessione ritmica che schiaccia i sassi e una chitarra dalla voce forte, alta e riconoscibile.


Feral Ohms: l’hard rock come lo potevano concepire gli MC5 (hanno esordito con un live, Live in San Francisco, proprio come i cinque della Motor City), con un rock’n’roll che sa di punk a muovergli il culo e, nella fattispecie, con la chitarra dell’immenso Ethan Miller a scompigliarne i capelli. C’è un tiro che ricorda i Motorhead e il miglior punk’n’roll, ma la sostanza è hard, di pasta buonissima.


Fuzz: qui è quando il buon Ty Segall ha deciso, nel bulimico percorso del suo scrivere, registrare e pubblicare, che voleva farne uno (ad oggi due, Fuzz e II) veramente, ma veramente heavy. Ha messo insieme gli amici di sempre e ci ha dato dentro con il fuzz e i riffoni alla Black Sabbath, con un’attitudine garage che è come una valanga, tirando fuori una delle bellezze heavy più lucenti degli ultimi vent’anni.


Graveyard: svedesi, di Goteborg, sono la punta di diamante della scena hard rock di questo inizio millennio. Granitici e quadrati, ruvidi come carta vetrata, pesanti come quintali di piombo, psichedelici, soul, esploratori e originali – così tanto da far passare la voglia alle anime pigre – hanno già sulle spalle una manciata di album memorabili che fanno impallidire qualsiasi concorrente. Hisingen Blues e Lights Out i migliori.


Green Desert Water: loro sono spagnoli e hanno appena sfornato il loro disco d’esordio, il bellissimo Solar Plexus, che ci propone un hard rock dalle vene acide e dal tocco quasi stoner. È davvero un piacere ascoltare le costruzioni ardite e le evoluzioni mai banali del loro heavy psych. Una band che occorre seguire e sostenere.


Hot Lunch: l’hard rock con il fuoco al culo, o il punk-hardcore che si fa pesante, fate voi, ma comunque la pasta di cui sono fatti gli Hot Lunch è questa cosa qui. Un treno ad alta velocità fatto di riff grassi e ruggenti, stacchi da perdere il fiato e attitudine a fiumi. Trovate e mettete su il loro esordio omonimo del 2013 (la primavera dovrebbe portarci il loro secondo) e ditemi se i Greta non vi iniziano a sembrare una band da Zecchino d’oro.


Radio Moscow: figliastri di Hendrix, Blue Cheer, Randy Holden e Sir Lord Baltimore, sono autori di un hard rock fluido e psichedelico, portato alle stelle dal tocco magico e funambolico di uno dei migliori chitarristi in circolazione, tale Parker Griggs. Prendete Brain Cycles e The Great Escape of Leslie Magnafuzz e ne sarete sazi.