Ho incontrato questo album tra le mie ricerche per la mia rubrica metal e in questi casi mi piace approfondire, quindi eccovi un’intervista con il gruppo.
Built-in Obsolescence è un progetto musicale nato a Riccione attivo dal 2010.
La composizione di base metal partì senza limiti portando la band a maturare nel tempo un sound vicino al Progressive e Alternative Metal con influenze Post e Ambient. La composizione e le trame strumentali sono affiancate a tematiche a tratti oscure e introspettive, costruendo dei veri e propri viaggi attraverso i comportamenti, le speranze e i disagi dell’umanità.
Cominciamo dai classici: provenienza, formazione e influenze. Da dove venite, come siete arrivati a suonare insieme e che musica ascoltate.
Ciao! Built-In Obsolescence nasce a Riccione nell’estate nel 2010 da cinque amici di vecchia data. Ognuno di noi suonava in gruppi diversi dai generi più vari (hardcore, punk n roll, crossover, heavy metal) e da tempo si pensava di buttare su un progetto tutti insieme di stampo metal, ma senza abbracciare una precisa derivazione del genere. Tra tutti e cinque ascoltiamo veramente ogni cosa ma se dovessimo indicare alcuni gruppi che ci mettono d’accordo sicuramente Tool, Porcupine Tree, The Ocean, Long Distance Calling, Alice in Chains ecc.
La formazione attuale è ancora quella originale: Alex Semprini alla chitarra, Bruno Galli alla batteria, Gianmarco Ciotti alla chitarra, Paolo Sanchi alla voce e Valerio Biagini al basso.
Com’è nato il nome della band?
Il concetto di Obsolescenza Programmata ci ha sempre affascinato e un po’ spaventato. Tolto il fattore economico, è evidente come la tecnologia non sia più un mezzo ma un fine. Cambiare piuttosto che riparare. La tecnologia ti aiuta a vivere se è conseguenza di una necessità, se diventa un mezzo a cui devi dare uno scopo a posteriori non può che essere vissuta con stress.
Purtroppo il mercato oggi si muove così e si cambia modello o si compra questo o quello in maniera compulsiva, senza una reale necessità. Questa tematica ci piace anche proiettarla nell’universo della relazioni.
Ad oggi si ha il mondo a portata di mano e si può conoscere chiunque con un click. Cambiare è più facile che riparare. Cambiare è più facile che fermarsi a pensare.
Termineremo questo “pippone” filosofico aggiungendo che la nostra prima sala prove si affacciava su un inceneritore che di notte, con le sue luci, dominava una buia vallata. Questo input visivo non ha potuto che aumentare l’ispirazione verso qualcosa di tecnologico e “apocalittico”.
E com’è nato INSTAR? Come vi siete trovati nello scriverlo e nel produrlo?
Partiamo con una premessa: inizialmente il nostro sound era in continua ricerca e si sentiva il contributo un po’ distaccato di cinque anime diverse. Quello che volevamo era diventare un qualcosa di coeso che valorizzasse tutti. INSTAR è stata un’esperienza intensa, faticosa a tratti, ma veramente soddisfacente. Una sera di qualche anno fa andammo tutti e cinque a vedere un concerto a Bologna: The Ocean / Mono / Solstafir.
Fu così intenso e di ispirazione che dopo due prove avevamo già composto una versione beta di Dance Of Falling Leaves. Da lì a un anno e mezzo tutto INSTAR era scritto. E’ stato come se i pianeti si fossero allineati.
A proposito di produzione: abbiamo lavorato con un fonico grandioso, ovvero Riccardo Pasini dello Studio 73 di Ravenna che abbracciamo calorosamente!
Bello l’artwork di copertina.
Grazie! Siamo contenti che piaccia perché, musica a parte, è innegabile che l’occhio sia la prima cosa che viene attratta guardando un disco o una pagina web dedicata. L’artwork è frutto dell’amore per i frattali, la geometria e lo spazio sconfinato. Restando sul tema artwork consigliamo di dare un’occhiata al disegno che l’artista Daisy Ingrosso ha sviluppato ispirandosi a The Wave per un progetto chiamato RadioApocalypse.
Un tema forte è lo spazio: in che modo avete deciso di affrontarlo, e perchè?
Siamo attratti sicuramente dall’immaginario dello spazio e allo stesso tempo molto affascinati dalle chiavi di lettura e dai molteplici significati. INSTAR come titolo ha una doppia chiave di lettura. È sia un gioco di parola tra “In” e “Star”, sia un termine indicante uno stadio di sviluppo degli artropodi, in cui perdono la loro protezione, per crescere e assumere una nuova forma.
INSTAR è un concept album sul tema dell’illusione, della (falsa?) speranza e della loro infinita ciclicità nello spazio e nel tempo. Lo spazio è quindi il palcoscenico in cui tutto avviene, lo scenario ancestrale dell’umanità. Su queste tematiche il disco alterna temi più astratti come “The Dance Of Falling Leaves” o “Ecdysis“, con storie e ucronie come “Project:Almaz“, “Shara” e “Lashes“.
Musicalmente si uniscono in forma progressive parti melodiche e parti più aggressive. Come avete bilanciato le varie componenti?
Siamo molto contenti di questa domanda e della percezione avuta del nostro sound. Alternare le intenzioni crediamo sia fondamentale per enfatizzarle: se si suona un disco tutto aggressivo o tutto melodico/etereo si rischia di perdere l’emozione che si vuole suscitare.
Il progressive è nelle corde e negli ascolti di buona parte della band e ci è sempre piaciuto non tanto per i virtuosismi, anzi, ma per la forma canzone e l’esperienza emotiva che trasmette.
Prossimi progetti e prossime date in Italia?
Attualmente stiamo lavorando molto alla diffusione e la promozione del disco. Per le date stiamo organizzando alcuni concerti tra l’estate e l’autunno qui in zona Romagna e dintorni. Sicuramente dopo questo periodo di promozione disco l’impegno per cercare date anche in altre zone di Italia o all’estero sarà più importante.
Grazie mille ragazzi, e ottimo lavoro!
Grazie a voi per lo spazio, per i complimenti e per l’attitudine con cui portate avanti la radio e tutto il resto. Quello che fate è prezioso!