Metà anni ’60. Bob Dylan spadroneggia negli States, e nel mondo: cantastorie, menestrello, icona dei fermenti della nascente rivolta studentesca e dell’antimilitarismo. Temi forti e strapresenti nella produzione musicale del decennio in questione e anche del prossimo. E non è tutto oro quello che luccica.
Fermo restando una adesione di base alla cultura antimilitarista diffusasi a macchia d’olio nei Sixties, causa solita politica imperialista americana, è lecito chiedersi se il continuo indugiare su certi temi non fosse in qualche misura anche una strategia di marketing. Ossia se “cantare la pace” non fosse in fin dei conti una scelta indirizzata dalla propria etichetta discografica, piuttosto che una sentita sentitissima attitudine e sensibilità verso la “no war culture”. Insomma, pare lecito avanzare il dubbio che alcuni menestrelli dell’epoca abbiano anche un po’ cavalcato l’onda della contestazione, per vendere dischi. Ebbene si, il profitto è pur sempre l’obiettivo di una casa discografica, anche delle etichette più indipendenti. E’ logico e naturale che sia così se si vuole sopravvivere e stare sul mercato. E dire no alla guerra nelle canzoni significava esercitare un fortissimo appeal sulla massa dei giovani contestatori, galvanizzatori e al contempo galvanizzati dal mercato discografico. Lungi da me esprimere un giudizio di valore sulla sincerità e spontaneità della “fede” rivoluzionaria e pacifista insita nel tessuto sociale dell’epoca e nei suoi prodotti culturali, la musica in primis. Anzi credo ancora oggi che sia stato il miglior periodo del secolo ‘900. Momento straordinario che per una serie di fattori sociali e politici crea un corto circuito culturale che ha davvero letteralmente cambiato il mondo. E lungi da me esprimere un giudizio “negativo” su Bob Dylan, considerato al pari di John Lennon icona musicale e culturale del XX secolo. Tuttavia rivedere il tutto con un occhio critico non fa mai male, soprattutto se aiuta a far emergere qualche voce fuori dal coro. Magari un menestrello un po’ “minoritario”, dall’indole più timida e remissiva, privo della grinta quasi un po’ superba che proviene dall’essere “coccolati” dalle case discografiche. Un ragazzo dall’aria trasognata e schiva, ma non per questo meno in grado di sfornare pezzi meravigliosi che parlano di pace e amore. Questo è Donovan.
Donovan Philips Leitch nasce a Glasgow nel 1946. I suoi primi pezzi sono in puro stile folk, eseguiti con sola voce e chitarra acustica. Un cantastorie dolce che col tempo però sperimenterà altri generi musicali, diventando musicalmente più rivoluzionario ed insolito. Il 1965 è l’anno della sua consacrazione presso il grande pubblico. “Catch the wind” è il 45 giri del suo debutto, balzato immediatamente al 4° posto nelle classifiche britanniche. Il brano ottiene ottimi apprezzamenti anche oltreoceano e, in estate, Donovan sarà in America per un tour promozionale con alcune apparizioni televisive. Sempre quell’anno si esibirà inoltre al Newport Folk Festival , dove duetterà con Joan Baez nella sua “Colours”. Interpretazione passata alla storia. “Colours” è la ballata d’amore di un artista che è ancora nel pieno della fase folk. Anche questa hit balza velocemente alle vette delle classifiche britanniche. Il suo stile iniziale porta la maggior parte della stampa a paragonarlo a Bob Dylan, molti diranno con fare sprezzante “una copia”. E certamente fra i due non correva propriamente buon sangue. Si instaura un rapporto di antagonismo quasi, di certo in parte incalzato anche dai media che ricamano un po’ sulla storia dei 2 menestrelli che si sfidano a colpi di hit dal nuovo al vecchio continente per conquistare il titolo di leader incontrastato della contestazione giovanile. Facile immaginare che a Dylan bruciasse il fatto di avere un “rivale” sulla scena inglese. C’è un film documentario, “Don’t Look Back”, che attesta proprio questa rivalità. Nel maggio del 1965 Dylan è a Londra per il suo tour inglese e i due si incontrano in una stanza d’albergo. Ne nasce una sfida musicale che passerà alla storia. Il timido ed educato Donovan esegue “To sing for you” , la cui delicata melodia ricorda molto lo stile del primo Dylan. Quest’ultimo, quasi nascosto dietro i suoi mitici occhiali da sole, lo ascolta muovendo la gamba fuori tempo . Poi, con fare sornione e di sfida, gli chiede la chitarra ed esegue una splendida versione di “It’s all over now, baby blue”. Donovan ad ascoltarla rimane di sasso… L’antagonismo fra i due non si esaurisce soltanto nelle ballate romantiche. E’ anche sull’inevitabile tema della guerra che corre il confronto. C’è un brano, “Universal Soldier”, scritto dalla nativa americana BuffySainte-Marie, la cui interpretazione passa inosservata. Sarà Donovan a portare al successo questo meraviglioso pezzo di critica a ogni guerra e a ogni soldato. “And he’s fighting for Canada, he’s fighting for France, he’s fighting for the USA, and he’s fighting for the Russians, and he’s fighting for Japan, and he thinks we’ll put an end to war this way.” Testo e musiche degne di tener testa a “The times they are a changin’” . Dunque per le molte somiglianze nello stile e nei temi affrontati era facile ed inevitabile considerare Donovan e Dylan due artisti paralleli. Sarà il tempo poi a dimostrare le differenze.
Già dal 1966, con l’assistenza del produttore MickieMost (The Who, Cat Stevens ed altri), Donovan incide “Sunshine Superman” con sonorità psichedeliche che si discostano completamente dallo stile acustico che aveva caratterizzato l’artista agli esordi. Il 3 settembre dello stesso anno la rivista Cash Box premia “Sunshine Superman” di Donovan come miglior singolo. Il successo è ormai consolidato in entrambe le sponde dell’Atlantico e Donovan è quasi sempre presenza fissa in classifica. Tra il 1967 e il 1968 Donovan sforna molti dei suoi classici come “Mellow Yellow”, “Wear Your Love Like Heaven”, “Jennifer Juniper” e “Hurdy Gurdy Man”. Sempre nel 1968 l’artista, deciso anch’egli a seguire la dottrina dello yogi Maharishi Mahesh, raggiunge i Beatles in India. La psichedelia, le filosofie orientali, il richiamo dell’India, le droghe, esercitano il loro potere attrattivo anche sul folk singer scozzese. Nel 1969 registra “Barabajagal” con l’ausilio del Jeff Beck Group, la band del chitarrista transfugo dagli Yardbirds. È l’ultimo grande successo da classifica di Donovan e, anche se molti eseguono cover dei suoi brani più celebri, la sua carriera ha iniziato la parabola discendente. Come è accaduto del resto a molti artisti e band dell’epoca. Un successo travolgente in brevissimo tempo per una serie di circostanze irripetibili di tipo musicale e sociale. L’abilità di interpretare fermenti e speranze del decennio ’60. La capacità camaleontica di reinventarsi e cavalcare ogni tendenza del momento, dal “Peace&Love” alla musica psichedelica, alla sperimentazione di nuovi “modus vivendi” incalzati dalla scoperta della spiritualità orientale e dalla fuga dal consumismo e conformismo della società occidentale. Tutto quanto c’era da cantare artisti come Donovan l’hanno fatto. Inevitabile che cambiando i tempi la loro vena creativa si sia assopita. Nuovi tempi, nuovi cantori della realtà. Ma è pur vero che l’universalità di alcuni temi, il pacifismo in primis, è di un’attualità spaventosa. Cadono di continuo giovani vite sui campi di battaglia delle nuove guerre del XXI secolo. “Universal Soldier” è da ascoltare, e tener presente, più che mai.
sara fabrizi