1966 – 1968. Nascita e morte di un gruppo. Una formazione musicale, fluida al suo interno, che dura appena un biennio ma che si consacra alla storia del Rock. Perché suonò il Country- Folk con gli strumenti di quello che era ancora un acerbo Rock. Perché fu l’incubatrice di artisti che esplosero di lì a poco trovando la propria personale strada, per poi incontrarsi ancora in seguito. Parliamo di Neil Young e Stephen Stills, soprattutto, che nei Buffalo si formarono uscendo dall’anonimato.
In altri termini i Buffalo Springfield furono un gruppo Country-Folk che suonò con strumenti poi propri del Rock (chitarra e basso elettrici, batteria) armonie da vocal-group. Il vecchio vino dei Byrds in botti nuove praticamente. Nashville si era trasferita a Los Angeles, come voleva il revival “old-time music” dell’epoca ( di cui furono portavoce i Grateful Dead, i Creedence Clearwater Revival, i Flying Burrito Brothers).
Anche se definirli un gruppo non è del tutto esatto. Erano piuttosto una congrega di cantautori che con tale marchio pubblicavano i loro brani. E se il trio Young, Stills, Furay era fisso, gli altri componenti variarono spesso nel corso dei due anni.
Nonostante la vita breve pubblicarono tre album che lasciarono il segno. Il loro debutto avvenne appunto nel 1966 con l’album omonimo che li consacrò come una delle migliori folk –rock band assieme ai Byrds. “Buffalo Springfield Again”, il secondo lavoro dell’anno successivo dalle sonorità più psichedeliche, è sicuramente il miglior successo del gruppo. A causa di divergenze interne il gruppo inevitabilmente si separa nel 1968 dopo la pubblicazione dell’album “Last Time Around”. Si rincontreranno di lì a poco Neil Young e Stephen Stills che, pur intraprendendo percorsi musicali diversi, finirono col collaborare ancora mediante l’inclusione di Young nel gruppo di Stills che divenne così il “supergruppo”: Crosby, Stills, Nash and Young.
Nel 1966 il Rock non si era ancora affermato. Dopo la rivoluzione rock ‘n’ roll, in America non ci si era ancora affrancati dal riflusso acustico-folk del Greenwich Village newyorkese guidato da Bob Dylan. In Inghilterra intanto si faceva rhythm and blues (Rolling Stones), facendolo passare per novità.
La British Invasion del ’65 consistette nel dilagare in America di complessi inglesi che riproponevano essenzialmente le melodie dei vocal-group degli anni 40 e 50, dando vita a una sorta di “rock n roll soft”, che in realtà era stato reso operativo in America diversi anni prima: il suo autore era stato infatti Buddy Holly e da questo si era trasmesso ai Beach Boys, che ne avevano ricavato la loro surf-music. Da questi ai Byrds il passo è breve, se vi si aggiunge la componente country tradizionalmente americana. I Byrds portarono il rock n’roll-soft e corale dei Beach Boys sulle tematiche e movenze esistenziali del country-blues americano: ossia misero una chitarra elettrica in mano a Dylan (precisamente al festival di Newport – il 26 luglio 1965). Nel 1966 bisognava speculare sulla capacità di farsi portavoce dei problemi della vita e dell’esistenza da parte di questa chitarra elettrica. Ed è proprio qui che si inseriscono i Buffalo Springfield. Collocandosi in quel consistente filone della musica popolare americana che restava legato alla tradizione, pur essendo prossimo alla psichedelia per l’uso della chitarra elettrica. Coniugando l’anima country americana con nuove sensibilità musicali, e sociali, si metteva in cantiere il Rock americano.
Una breve disamina dei tre soli (ma storici) album della fluida band può aiutare a rendere l’idea di quello che è stato l’apporto che i Buffalo hanno fornito al nascente Rock. Il primo album dei Buffalo Springfield è tanto distante dall’estetica odierna da risultare all’ascolto quasi estraniante, ma proprio per questo affascinante. L’atmosfera è descrivibile come un country-pop elettrico/acustico intriso di fatalismo, epos, magniloquenza e pessimismo. Abbiamo qualcosa dei Byrds senza i loro sperimentalismi, ma con un tono cupo più marcato. Un album ancora acerbo che non contiene forse brani memorabili, eccezion fatta per “For what’s is worth”. E’ l’album successivo invece che la critica definisce come il loro capolavoro. “Again” è considerato un album d’avanguardia e ancora non propriamente rock, se si esclude “Broken Arrow” composta da Young. Qualcuno disse che “Again” sembrava esser stato composto da un gruppo di marziani pazzi ,per la grande sperimentazione, per la spiazzante varietà di stili. Varietà che si ritrova non solo tra le varie canzoni ma addirittura anche all’interno di ogni canzone dell’album. Nella stessa “Broken Arrow” troviamo un avvio inizialmente rock per poi lasciare spazio a tamburi, archi, tastiere, silenzi e parole al vento. Forse uno dei pezzi più evocativi scritti da Young. Una perla comunque. Un brano che nella versione live at Canterbury House 1968 ti spiazza l’anima… Il terzo ed ultimo album del gruppo è quello che viene considerato più propriamente rock. C’è stato di mezzo il 1967, l’anno dell’esplosione del rock con i Jefferson Airplane, Doors, Velvet Underground, Jimi Hendrix. I Buffalo scelgono di stare dalla parte dell’avanguardia. “Last Time Around” è di sicuro l’album che più fortemente connota il gruppo come contenitore, come egida comune sotto cui diversi artisti pubblicavano le proprie canzoni. E’ proprio in quest’ultima fase che inizia a spiccare sempre più la figura di Young, segno che i tempi sono maturi ormai per intraprendere una carriera da solista, o comunque staccata dai Buffalo. E se i Buffalo erano, raggiunta l’apice, ormai al tramonto, dalle loro ceneri stava nascendo qualcosa di meraviglioso…
sara fabrizi