Rieccoci a parlare di artisti non molto famosi (ingiustamente, a parer mio): questa volta si tratta degli “Hollow & Akimbo”, gruppo composto da Jonathan Visger, Brian Konicek, e Mike Higgins. Provenienti da Ann Arbor, Michigan, sono giunti alle vostre orecchie durante una delle ultime puntate della nostra trasmissione, nel Sottoscala di Marco. Il loro genere è un insieme di alternative rock, experimental rock e dream-pop.
Per ora ho acquistato un solo loro album ma sicuramente li approfondirò in seguito, poichè mi hanno colpito con il loro stile semplice ma efficace, con momenti in cui il post-rock sembra emergere per poi accodarsi all’insieme e formare un indie-rock quasi britannico.
L’album di cui vi parlerò brevemente è Pseudoscience, con il quale hanno provato ad emergere nel mondo musicale. Si tratta di quattro pezzi, tutti della durata di circa quattro minuti, registrati nello scantinato di casa ed altre location interessanti (cucina, camera da letto, etc.).
Partiamo dunque con i brani.
Fever Dreams si presenta con una nota ripetuta, con la sola variazione del tempo, alla quale si va ad aggiungere una tastiera ed infine la parte vocale, malinconica e trascinata. Nel secondo ritornello interviene una seconda voce acutissima e la terza (sempre quella del cantante) che si sovrappone alla prima. Si ha dunque un riff a mio parere simpatico che ci guida per circa un minuto, fino all’interruzione improvvisa della parte strumentale, con la sola tastiera superstite.
Si collega a questo primo pezzo dunque Still Life, molto dream-pop, con molti acuti del cantate su base molto tranquilla, composta da percussioni accennate, chitarra ripetitiva e pianoforte. Il tutto va avanti per due minuti e mezzo, quando un pezzo post-rock prende il sopravvento, riacciuffato al volo dalle numerose voci del cantante.
Chasing the Nevermind parte con un Synth e percussioni elettriche. Subito l’immancabile parte vocale interviene per trasformare il tutto in dream-pop, con un’atmosfera sognante disturbata appena dal riff della chitarra elettrica nel ritornello. Intorno al terzo minuto il Synth ricomincia a prendere il sopravvento insieme ai cori del cantante, per poi far finire il pezzo in una sottrazione di strumenti.
L’ultimo brano è il mio preferito dell’album. Solar Plexus comincia con un motivetto che mi ha ricordato la sigla giapponese del primo DragonBall, al quale si aggiunge il Synth che definisce subito il tempo da seguire. Arriva dunque il cantante, e al termine di ogni sua frase l’ultima parola viene fatta riecheggiare a tempo, componendo un insieme di sonorità interessante. Ci ritroviamo così in una colonna sonora ad 8 bit che torna ad intersecarsi nuovamente con la componente vocale. Dal terzo minuto in poi ci ritroviamo in un lungo finale, che chiude degnamente l’album.
Consiglio a tutti l’ascolto di questo album, non vi aspettate però di trovare pezzi estremamente complessi. Ascoltate Solar Plexus per capire il loro genere; se vi piacerà potrete poi passare a tutti gli altri brani senza pentirvene.