Cosa accade se tre ragazzi innamorati del Brit Pop decidono di andare oltre una, riuscitissima, tribute band dei Beatles? Accade che nascono The White Walrus. Ho già detto tutto: devozione per i Beatles e per il pop britannico. Partendo da queste premesse ne viene fuori un disco di inediti: “Colours”. Titolo semplice ma profondamente evocativo. Ogni traccia dell’album si ispira a un colore o, meglio, alle sensazioni suscitate dai colori. Sarà interessante scoprire come questi 3 giovani musicisti siano arrivati a concretizzare il loro sogno e cercare di capire cosa li anima, li ispira, li spinge.
Il nucleo originario del progetto “The White Walrus” è rappresentato da Davide Saccucci ed Alessandro Ferrante, due amici che circa 10 anni fa iniziano a scrivere pezzi inediti in italiano ma con una chiara matrice di pop britannico. Questo progetto di inediti si chiama “Oversize”. L’attività di creazione artistica si alterna con delle tribute band, tra cui appunto quella incentrata sui Fab Four. E, successivamente, nel tempo si approda al “Tricheco Bianco”. Ed è qui che arriva Marco, fratello di Davide, che entra a pieno titolo nella band. Un trio, dunque, dove tutti e 3 i membri prendono parte al processo creativo/compositivo fornendo il proprio personale apporto e riversandovi le proprie influenze artistico-musicali. La matrice unitaria dei brani è fatta decisamente di Pop Britannico con un forte riferimento agli anni ’90, dunque Oasis e Verve essenzialmente, ma non disdegna richiami al Prog dei primi anni ’70, influenza deducibile dal ricorso al synth. Che poi i Beatles aleggino lungo tutto il disco è forse scontato dirlo, data la formazione musicale e le passioni dei tre… A scrivere i testi è essenzialmente Davide, mentre gli arrangiamenti sono opera di tutti e tre i ragazzi. Di cosa parla la loro musica? I testi, ci tiene a precisarmi Davide nel corso di una informalissima intervista, sono per lo più disimpegnati nel senso che non c’è un messaggio sociale da dare ma semplicemente il racconto e riferimento a proprie personali esperienze e sensazioni che, appunto, mediante la comunicazione musicale si spera si facciano universali. Si spera arrivino al pubblico e che questo possa percepirli con gli occhi di chi li ha scritti, immedesimandovi in essi. Il messaggio non è criptico e cervellotico ma è immediato e pop. Pop proprio nell’accezione di popolare. Semplice, diretto, accessibile a tutti quelli che vogliano prestare orecchio e cuore all’ascolto.. Le parole vengono fuori da ricordi di un episodio, evento quotidiano o di un semplice stato d’animo collocati in un arco temporale preciso e definito. Ed è la precisa sensazione evocata da quell’episodio, da quello stato d’animo in quel momento, che si vuole fare testo e melodia. Una poetica delle piccole cose, insomma. Del quotidiano e del condivisibile, perché è una sensazione universale come la nostalgia, inestricabilmente legata ai ricordi, a permeare i testi. Una nostalgia di fondo con un richiamo ad un’età di maggiore spensieratezza, di maggiore innocenza e di frivolezza quasi. Mi stupisco, e mi rallegro, quando Davide mi elenca le sue fonti di ispirazione “letteraria”: Bob Dylan e Salinger con il suo “Giovane Holden”…. I testi rappresentano, ad ogni modo, non il primo step bensì una fase successiva nel processo creativo dei tre. Tutto ha inizio con un giro d’accordi, una linea vocale, che di volta in volta Davide, Alessandro, Marco propongono. E’ la fase “primordiale”, quella del motivetto che si fischietta strimpellando la chitarra. Da qui poi seguirà una maggiore strutturazione del brano musicale su cui, successivamente, verrà innestato il testo. E’ nel momento della creazione della melodia che ognuno dei tre da fondo ai propri personalissimi “amori musicali”. Davide sarà guidato dal “White Album” dei Beatles, da “Highway 61 revisited” di Bob Dylan, da “Tommy” degli Who, da “West Ryder Pauper Lunatic Asylum” dei Kasabian, da “The Dark Side of the Moon” dei Pink Floyd. Alessandro dal canto suo avrà ben impressi nella mente “Standing on the Shoulder of Giants” degli Oasis, “Urban Hyms” dei Verve, “Unforgettable Fire” degli U2. Marco si lascerà ispirare da “Ok Computer” dei Radiohead, da “Rubber Soul” dei Beatles, da “Band on the Run” di Paul McCartney. C’è roba a sufficienza per dar vita ad un bella opera pop/rock. Quello che è sgorgato da questo intreccio creativo di sensibilità personali è un lavoro organico, quasi un concept album, un album tematico dove le tracce non sono pezzi a se stanti ma sono legate da un sottile filo rosso. Dunque, data alla luce la loro “creatura” i tre musicisti si pongono una mission specifica: far conoscere il proprio disco nei live. Con un forte desiderio di fondo: rimanere sempre indipendenti, senza le imposizioni che potrebbero esser dettate da eventuali produzioni ed etichette. Indie Rock dunque. E come non comprendere questa loro volontà. Sono, giustamente, gelosi del proprio disco. Un disco prodotto praticamente in homerecording, con mezzi limitati, eppure approdando ad un ottimo risultato. Questo il loro indubbio vanto. E la dimostrazione che se si è animati da passione e forte volontà si possono realizzare grandi cose. La musica trova spazio nelle loro vite e li coinvolge in termini di dedizione, passione, impegno forse anche di più di quanto vogliano ammettere.. L’ambizione c’è, traspare ed è normale. I piedi ben ancorati a terra pure. E’ Arte nella sua semplicità e nella sua complessità al contempo. Nella voglia di indipendenza e nel desiderio di comunicare se stessa, di farsi condivisione. Nel progetto “ The White Walrus” questi ingredienti sono felicemente tutti presenti.
Sara Fabrizi