Come spiegare e far amare alla ciociaria il west coast rock. Come spiegare, divulgare, un mix di sogni, speranze, melodie, amarezze che si stagliano sullo sfondo della costa ovest americana. Come dimostrare che un pugno di canzoni senza tempo possono essere veicolo dei valori più belli e dei tormenti più umani. Negli States come qui. Questo il progetto che anima da tempo Mr. Stefano Sugamele, chitarrista e cantautore che ha fatto del rock americano la sua passione e la trasmette, gioiosamente, agli altri. Chi come me ha avuto la fortuna di ascoltarlo esibirsi diverse volte lo sa. Ti entra dentro con la sua musica e te la fa amare, invogliandoti alla scoperta di un genere musicale che forse conoscevi poco in precedenza, che forse snobbavi. Ecco lui è in grado di indirizzare in questo senso la tua formazione musicale, e proprio così è avvenuto con me.. Qualche sera fa ho avuto il piacere di ascoltarlo in un toccante live con la sua nuova band, The Redneck Brothers, presso il cinema teatro Nestor di Frosinone. Stefano, circondato da musicisti di un certo livello, ha dato sfogo a un bel repertorio fatto di cover di pezzi più o meno noti ed inediti. Lo stile musicale di base è appunto il rock americano con decise venature country. Ad aprire il concerto un pezzo stranoto, “Streets of Philadelphia” di Bruce Springsteen. A chiudere una delle più belle canzoni sul rapporto padre-figlio che siano mai state scritte, “Father and Son” di Cat Stevens… in mezzo circa 3 ore di spettacolo. Una manciata di nomi che la dicono lunga a chi è un cultore del genere ma anche a chi partendo da questo concerto potrebbe diventarlo… Sono stati eseguiti brani del Boss, appunto; di Little Feat, tra cui la toccante road song “Willin”; di Jackson Browne, tra cui l’epica “These Days”. E poi pezzi di Ryan Adams, di Tom Petty, di Tanya Tucker, del grande Leonard Cohen. Spaziando nei decenni, dagli anni ’60 ai ’90, i più grandi rappresentanti del genere. Anche con una piccola incursione nel rock britannico, con Cat Stevens appunto e con un pezzo degli Stones, la ballad decisamente country “Dead Flowers”. Pezzi eseguiti con trasporto, reinterpretati con originalità, valorizzati dagli assoli dei bravissimi musicisti della band. Ed il pubblico risponde con calore alla comunicazione di così tanta passione musicale. E non potrebbe essere diversamente. Sembrava davvero di esser trasportati in scenari come praterie, Grand Canyon, spiagge californiane. Sembrava davvero di vivere l’America. Con le sue bellezze e le sue contraddizioni. Con i suoi sogni e le sue amare disillusioni cantate al crepuscolo da un banjo. The Times They Are Not Changin’. E c’è ancora tanto bisogno di questa musica, per poterlo almeno sognare un mondo migliore…
Sara Fabrizi