Born on the bayou: un loro pezzo ne diventa un po’ il manifesto programmatico. Nati nella baia di San Francisco. E portatori e divulgatori del rock n roll californiano. Forse il quartetto rock più celebre dopo i Fab Four, loro si chiamavano Creedence Clearwater Revival. Sebbene il loro periodo di attività sia stato relativamente breve (1967-1972) hanno sfornato 6 album tutti assolutamente emblematici nella storia del rock. Perché i Creedence sono l’essenza stessa del rock americano, la base, la matrice e anche un po’ il minimo comun denominatore di tutte le band successive. Una sorta di proto-rock, insomma. E se i Buffalo Springfield hanno rappresentato la fucina del nascente rock americano (sperimentando stili ed anticipando tendenze), i Creedence ne hanno rappresentato la prima inarrestabile esplosione.
E’ come se tutto il magma che covava nel grande cratere musicale del Nuovo Mondo fuoriuscisse tutto per la prima volta, in una spettacolare eruzione. I Creedence riprendevano, elaborandolo in modo nuovo, tutto il materiale musicale precedente. Sostanzialmente facevano canzoni o riprendevano canzoni dal country-rock n roll di vent’anni prima (e appunto per questo Revival!). Il punto è che le suonavano in modo diverso. Ed è questo modo inedito di suonarle che fa il Rock. Un modo che è il punto di arrivo di tutto un lavorio di affrancamento dal Blues. L’esito di un filo rosso che si dipana negli anni per emancipare la musica dal continuum blues e farla approdare alla forma sincopata del rock, ossia alla forma minimale chitarra-basso-batteria. A questo processo di nascita del Rock, mediante il taglio del cordone ombelicale dal Blues, hanno contribuito le più svariate band degli anni ’60 in particolare The Byrds con il loro folk-rock. Ma i CCR sono stati quelli che hanno definitivamente partorito il Rock. Essenziale e minimale, appunto. La base e il punto di partenza per ogni evoluzione a venire. Loro furono genere, e mai sottogenere. Si scrive Rock si legge Creedence.
Come pochi nella storia, il gruppo manterrà sempre una medesima line-up: il leader e compositore John Fogerty (classe 1945) al canto e alla chitarra solista, gli straordinari comprimari – e coetanei – Doug Clifford (alla batteria) e Stu Cook (al basso) e il fratello di John, Tom, alla chitarra ritmica – il più vecchio di tutti, nel ’68 aveva 25 anni. La storia dei Creedence inizia proprio dal leader John Cameron Fogerty e dal batterista Doug Clifford. Rispettivamente fattorino dei giornali ed apprendista fioraio, con una chitarra Silverstone da 80 dollari e una batteria artigianale, i due non si perdevano una festa scolastica sotto il nome di Blue Velvet. Negli anni ’60 la zona della baia di San Francisco era tutta un pullulare di band nelle junior e high school. Liceali insomma, con la passione per il rock n roll. Con l’arrivo dell’amico Stuart (Stu) Cook al basso e del fratello maggiore di John, l’introverso Tom, alla seconda chitarra il quartetto è fatto. Cambieranno diversi nomi, da Blue Velvet a Playboys a Gollywogs. Gli albori della band non sono facili: presentano demos a tutte le etichette discografiche della regione, incidono un paio di 45 giri passati inosservati e accompagnano in tour qualche star locale. Ma i 4 ragazzi sono motivati e non demordono. Guardano a una piccola etichetta della Bay Area, la Fantasy, come ad un possibile punto di svolta e si recano subito alle porte del manager della label, Max Weiss, che li scrittura all’istante. Dopo qualche tentativo poco fortunato di attirare l’attenzione dell’etichetta con dei motivetti sull’onda della “british invasion” e una serie di rogne, tra cui lo scampato servizio militare per John e Doug, i 4 si ripresentano al cospetto di Weiss in vesti nuove e con un nome nuovo. Accantonata la “british invasion”, riscoprono un sound più grezzo e genuino, un country rock rivisitato e aggiornato mediante l’utilizzo di strumenti elettrici: erano nati i Creedence Clearwater Revival.
Il primo album è del 1968 e porta il loro nome. Balzano prepotentemente all’attenzione della California e dell’America proponendo perle che sono diventate parte dell’immaginario collettivo del country rock: la versione dilatata di Suzie Q (di Dale Hawkins) e la cover di I Put a spell on you (di Scramin Jay Hawkins) sono per i Creedence un’autentica consacrazione. Con l’album del 1969, “Bayou Country” non solo gli States ma anche il resto del mondo si accorgerà dei 4 californiani. La voce graffiante e urlante di John Fogerty inizierà a diventare un emblema della fortunata formula Creedence. Per dare un’idea del successo planetario che la band stava incontrando basti dire che Proud Mary, contenuta in quest’album, può contare finora ben 2400 versioni ufficiali. Uno dei brani più coverizzati della storia della musica, che ha anche ottenuto la Golden Stare della BIEM (la società degli autori americana), riconoscimento meritatissimo per una hit che da 45 anni è in testa agli incassi per i diritti d’autore. L’album successivo, “Green River”, verrà appena 6 mesi dopo il secondo e sarà quello della loro ascesa definitiva all’Olimpo del Rock. Un album con ben 4 singoli ai vertici delle classifiche: Bad moon rising, Green river, Lodi, Commotion. La commistione di country e rock n roll, le tematiche affrontate nei testi con un velato impegno sociale ed ecologista, una serie di riff divenuti mitici ed infallibili, i tours, la partecipazione ai festivals (Woodstock in primis) sono tutti elementi che confermano il crescente appeal della band e del suo leader incontrastato John, autore di quasi tutti i pezzi. Nel 1970 esce “Will and the poor boys”, album con cui ottengono il prestigioso riconoscimento di miglior disco dell’anno dalla rivista Rolling Stone. Tra i pezzi ricordiamo: Down on the corner, Cottonfields, Fortunate Son, Midnight special. Tutte hit entrate nelle charts e nel repertorio di ogni country band americana e di ogni rispettabile bluegrass. Otterranno per quest’album il doppio disco di platino. Subito dopo i 4 californiani si rinchiudono per un po’ nella tenuta del batterista, la famosa Cosmo’s factory, e qui, nel giugno del 1970, partoriscono l’omonimo album. Quest’ultimo viene ritenuto il loro manifesto. 5 milioni di copie vendute solo negli States e 5 singoli nelle hits di tutto il pianeta: Looking out my back door, Up around the bend, Who’ll stop the rain, Long as I can see the light, Travelling band. Nel dicembre dello stesso anno arriva sul mercato “Pendulum”, album controverso e che di fatto segnerà la fine del gruppo. Si tratta del loro lavoro più schizofrenico. Vero monumento all’ego di John, contiene 10 brani tutti composti, cantati e in gran parte suonati dal minore dei fratelli Fogerty. Al punto che molti ritengono che questo non sia definibile come un album dei CCR ma di John solista. Troviamo qui un mix di rock disimpegnato, energia giovanile e sperimentazioni varie mettendo quasi in discussione quello che era stato il loro caposaldo: il Rock. Svalutato dalla critica ma apprezzatissimo dal pubblico, il loro ultimo lavoro testimonia la volontà, già presente in “Cosmo’s”, di orientarsi verso un prodotto fruibile da tutti, che arrivi ovunque, non solo canticchiato ma cantato. In una parola, ci si avvicina al pop. Tra i pezzi celebri ricordiamo: Have you ever seen the rain (capolavoro pop-rock), Wish I could hideway (barocca e con l’uso tipico delle tastiere anni ’70) e la strumentale Rude awakening (strumentale e progressive). Finita la registrazione dell’album la seconda chitarra, Tom Fogerty, abbandonerà il gruppo, preso dai suoi problemi personali e dalle sue frustrazioni. Subito dopo la vena creativa del fratello-leader sembrerà essersi prosciugata. Orfani di Tom, ma determinati a proseguire nel nome dei CCR e di una rinnovata parità e democrazia, i tre nel 1972 sfornano un nuovo album, “Mardi gras”, che però verrà bocciato da una parte della critica come “né carne né pesce”. Il buon John sembra ormai aver esaurito le sue geniali idee ed insiste con una formula country rock che improvvisamente però non convince più. Forse perché hanno raschiato il fondo del barile, hanno portato quasi all’eccesso ciò che di fatto avevano inventato. Quest’ultimo disco pare quasi un nervoso tentativo di voler essere ancora i Creedence, a tutti costi. Siamo al canto del cigno, inevitabile, per ogni band storica e di successo, a meno che non cambi e si cambi totalmente per stare sul mercato e sulle riviste musicali. Ma evidentemente ai CCR questo non è interessato, dovevano già essere belli appagati. Del resto avere inventato il Rock deve essere una soddisfazione che va ad oscurare qualsiasi altro desiderio.
Sara Fabrizi