Autore: Creedence Clearwater Revival
Titolo Album: Willy And The Poor Boys
Anno: 1969
Casa Discografica: Fantasy Records
Genere musicale: Rock
Voto: 10
Tipo: LP
Sito web: http://www.creedence-online.net/
Membri band:
John Fogerty – voce, chitarra, sax tenore, armonica a bocca, tastiere
Tom Fogerty – chitarra, voce
Stu Cook – basso
Douglas “Cosmo” Clifford– batteria, voce
Tracklist:
1. Down On The Corner
2. It Came Out Of The Sky
3. Cotton Fields
4. Poorboy Shuffle
5. Feelin’ Blue
6. Fortunate Son
7. Don’t Look Now
8. The Midnight Special
9. Side O’ The Road
10. Effigy
Il quarto album dei CCR è Willy And The Poor Boys. Uscito nel 1969, il terzo dei Creedence in quell’anno. Una band dunque che si permette di fare ben 3 album in 12 mesi. Questo può significare solo una cosa, anzi due: fervore creativo e scandaglio profondo del rock nelle sue matrici tradizionali di folk, blues e country facendole rivivere in un rock moderno, minimale e diretto. Alla Creedence maniera, come abbiamo ormai imparato a conoscerla. Questo è l’album in cui i 4 ragazzi di El Cerrito raggiungono la perfezione formale. L’esecuzione è impeccabile in ognuno dei 10 brani. La vena compositiva di John Fogerty raggiunge l’apice e gli altri 3 sembrano seguirlo, accompagnarlo, coadiuvarlo con una naturalezza tale che qualcuno disse che “gli facevano da metronomo”. Un album che venne premiato da Rolling Stone come miglior disco dell’anno. In un anno, il 1969, in cui c’era un tripudio di band grandiose i CCR vennero eletti come i migliori. La loro formula magica sembrava funzionare perfettamente. Il brano di apertura è Down On The Corner. Diretto e scanzonato, con un motivetto ed un ritmo che lo hanno reso una delle pietre miliari del country rock. Brano molto coverizzato. Segue It Came Out Of The Sky. Un classico pezzo rock’n’roll, semplice, immediato, potente. Il terzo brano è Cotton Fields. E’ una cover di un pezzo di Leadbelly, il padre indiscusso di tutti i folksingers e bluesman del XX secolo. Senza di lui non avremmo avuto Woody Guthrie, Pete Seeger, Bob Dylan, i CCR, Bruce Springsteen e via dicendo. A sottolineare l’importanza delle cover nell’architettura degli album dei Creedence. Tributo, omaggio, alle radici della musica americana. E rivisitazione, sotto forma di un minimale e immediato rock. La versione fogertyiana di Cotton Fields gioca molto sui cori e sulla contrapposizioni delle voci. Quando la musica si stoppa per lasciar spazio solo alle voci è da pelle d’oca. In un brano che parla degli schiavi neri che raccolgono cotone quest’effetto vocale ci rende quasi tangibile la loro sofferenza, e la loro voglia di riscatto. Non una semplice cover questa, ma una perla. Il quarto brano è Poorboy Shuffle. Una sorta di improvvisazione folk, interamente strumentale. Consiste in un assolo di armonica che verso la fine lascia spazio alla batteria, funzionale a far sfumare nel fade out l’armonica e a introdurre, legandolo in un continuum, il brano successivo. Veniamo così condotti verso il quinto pezzo, Feelin’ Blue. Tipica swamp-song, ossia di quel filone blues chiamato “delle paludi”. Cupa quanto basta e tutta costruita attorno alla voce di Fogerty. Il sesto brano non ha quasi bisogno di presentazioni. Si tratta infatti di Fortunate Son, una hit stellare. Uscita come b-side di Down On The Corner, finì con l’avere più successo di questa. E’ una canzone pacifista, “It ain’t me, it ain’t me, I ain’t no senator’s son, son
It ain’t me, it ain’t me, I ain’t no fortunate one, no”. C’è un chiaro riferimento alla guerra del Vietnam. Alla posizione privilegiata di alcuni ragazzi che, vantando paternità illustri, potevano esimersi dal partecipare a quella sanguinosa guerra. L’impegno dunque, e la protesta. Condite da una chitarra irrefrenabile, con piglio quasi hard-rock, e da una voce rabbiosa. Tutti ingredienti che, sapientemente mescolati, ne fecero una hit di planetario successo. A seguire il settimo brano, Don’t Look Now. Un country-folk che ci colpisce per la voce di Fogerty, calda, bassa. Ci ricorda quasi Elvis. Un pezzo breve, poco appariscente ma gradevole. L’ottavo brano è una cover (la seconda dell’album). Trattasi di Midnight Special. Un classico del folk blues, la cui paternità è argomento controverso: c’è chi l’attribuisce a Leadbelly, chi a Woody Guthrie. Ma forse è giusto che la sua non definita provenienza si perda nel fantastico marasma delle traditional songs americane. Una canzone che parla di treni, di stazioni, di vita povera. La rivisitazione fogertyiana, come al solito, restituisce la bellezza dell’originale modernizzandola in chiave rock e rendendola irresistibile. C’è un incipit molto bluesy, tutto giocato sulla potente voce di Fogerty, che poi diventa rock con l’incalzante batteria di Clifford. Il nono brano è Side O’ The Road. Tutto strumentale, un blues un po’ acido. Un vero esercizio di stile per le chitarre dei due fratelli Fogerty, con il basso di Stu e la batteria di Clifford che li seguono a mo’ di metronomo. Grande esempio di affiatamento fra i membri della band. Quindi arriviamo al brano conclusivo, Effigy. Oltre 6 minuti di un rock blues un po’ cupo. Tutto in crescendo, con una certa tendenza alla jam. Di grandissimo impatto. Una sorta di melodramma acustico-elettronico che strizza l’occhio a Neil Young. A mio parere il capolavoro dell’album. Quella di John Fogerty qui è una chitarra davvero a cuore aperto. Effetti molto efficaci che rapiscono. C’è una coda strumentale di oltre 2 minuti, bellissima. Superfluo dire che un album così perfetto dovrebbe essere tassello fondamentale della cultura musicale di ogni appassionato di rock.
Sara Fabrizi