Dissero di lui: non cantava semplicemente, lui ruggiva! Ebbene quel ruggito, quella voce graffiante che seppe unire come pochi il rock e il blues si è spenta ieri.. All’età di 70 anni il ragazzo che infiammò Woodstock se ne è andato dopo aver lottato a lungo contro una brutta malattia. Non è bastata la sua grinta a salvarlo e da oggi purtroppo il mondo del rock ha perso un ulteriore fondamentale pezzo. Non lo vedremo più sul palco con il mento proteso verso l’alto, i gomiti stretti al fianco, le mani che scandiscono il tempo. Non udiremo più il ruggito del “leone di Sheffield”. Questo il soprannome che gli era stato attribuito. E come accade per molte rock star, anche Joe Robert Cocker vanta umili origini. Nasce il 20 maggio 1944 a Sheffield in Inghilterra in una tipica working class family. Inizia la sua carriera da ragazzino, mentre impara il mestiere di idraulico. Il suo primo amore musicale è lo skiffle, una sorta di versione povera del blues americano. Inizia a 15 anni con il nome di Vance Arnold, diventa un membro degli Avengers, poi dei Big Blues nel 1963 e infine della Grease Band, tre anni dopo nel 1966. Cocker amava il blues e il soul ma quelli erano anni d’oro nel Regno Unito. La musica esplodeva con suoni nuovi, i Beatles erano ovunque e cambiavano la percezione dei suoni stessi. Di sicuro non fu semplice per lui, amante del blues in piena esplosione beatlesiana, trovare una sua dimensione. Come coniugare questi due corposi influssi musicali? Ebbene, pochi come lui riuscirono a conciliare le opposte tendenze. E lo fece letteralmente graffiando di blues i pezzi dei Beatles. Il primo singolo con cui si fece notare fu proprio una cover dei Fab Four, ‘I’ll Cry Instead’, dall’album ‘A Hard Day’s Night’. Ma fu la sua apparizione a Woodstock a consacrarlo. Joe Cocker uscì all’inizio sul palco, cantò il terzo pezzo del concerto cominciato alle 17.07 di venerdì 15 agosto 1969. Uscì davanti alla folla di ragazzi e cantò ‘With a Little Help from My Friends’. Questa performance gli valse un successo planetario e lo consacrò, insieme al suo ruggito, a icona del festival. Da qui la sua scalata nel mondo del Rock. Con le sue glorie, ma anche con i suoi eccessi. Assieme alla Grease Band prima, e ai Mad Dogs and Englishman dopo, gira il mondo con i suoi concerti, scala le classifiche ma si perde tra alcol e droghe. Inizia così a perdere il controllo della sua carriera. Siamo nel 1973, non bastarono album di indubbio successo e una canzone splendida come “You are so beautiful” a rimetterlo sulla retta via. La sua vita è sempre più dissoluta e ne risentono anche i suoi celebri live show che diventano sempre meno precisi e interessanti. Potremmo pensare di stare davanti alla parabola tipo della rock star che, arrivata al successo in modo repentino e violento, altrettanto rapidamente si brucia.. la storia di Jim Morrison che si ripete. Invece Joe Cocker trova una suona nuova via e rifiorisce musicalmente. Grazie a Micheal Lang, organizzatore del festival di Woodstock, che gli fa da manager e alla sua nuova moglie Pam che lo aiuta a uscire dal tunnel dell’alcolismo. Negli anni Ottanta ricalca le scene musicali e lo fa in grande stile. Vince l’Oscar e il Grammy nel 1982 con “Up where we belong”, soundtrack del film “Ufficiale e Gentiluomo”. Le colonne sonore sembrano portargli fortuna, nel 1986 esplode il tormentone “You can leave your hat on”, dall’album Civilized Man, che segna nell’immaginario collettivo una celebre scena del film “9 settimane e 1/2”… E’ il periodo della rinascita artistica e personale. E mentre l’Inghilterra, già subito dopo Woodstock, non lo ama come meriterebbe è l’America che lo accoglie nel suo cuore. Diventa un grande interprete del rock, del soul e del rhythm’n’blues. Questa rock star dall’intensa fisicità trova negli States la sua seconda casa. Ed è proprio negli States che ieri si è spento, nel suo ranch in Colorado, vicino, vicinissimo a quelle radici blues che aveva dentro di sé come fosse un dono innato.
Sara Fabrizi