PENSIERI SPARSI SU BOB DYLAN (e sul suo anno 1965…)

Bringing it all back home

 

 

 

 

 

 

Come approcciarsi alla scrittura di un articolo su Bob Dylan. Come misurarsi con un Grande nonché mio mito personale. Come evitare di cadere nel già detto. Come destare l’interesse di chi lo conosce poco e niente e di chi ne è un cultore. Divisa fra intenti divulgativi e messa a fuoco su un album, un pezzo, una fase particolare. Ecco, tutto questo mio incipit è per dirvi che non ho la minima idea di come muovermi e quindi mi dovete perdonare se risulterò noiosa, banale, troppo settoriale, troppo adorante. Naturalmente spero in cuor mio di risultare quanto meno leggibile e discretamente interessante. Naturalmente è da un po’ di tempo che fremo per scrivere su di lui.

Il “menestrello” d’America non è solo il cantautore americano più famoso di tutti i tempi..direi “Il cantautore”. E’ il musicista/poeta che ha fatto uscire il Folk dai meandri di un relativamente ristretto circolo culturale “Il Greenwich Village” e lo ha reso genere di tutto rispetto e risonanza. E’ il cantautore che si è anche potuto permettere di tradire il Folk convertendosi al Rock, ma restando folk sempre e comunque. La svolta “elettrica” del 1965 non potrà mai prescindere dagli echi del suono della sua armonica. Ed è forse proprio questo “tradimento” a diventare emblematico di una carriera e di una personalità che sembra avere avuto leggere ma decise evoluzioni. Senza mai poter essere inquadrato in una etichetta. Caratterizzandosi per quello che è, al di là degli anni, dei generi musicali, del contesto sociale, cavalcando i tempi di protesta e rivoluzione, sempre a suo modo però. Apparendo snob, non un docile folksinger ma un uomo “sui generis” come solo un poeta sa essere. Leggendo la realtà, filtrandola attraverso la propria interiorità. Rendendo universale il particolare, e viceversa. Tramite testi visionari e potentemente rivoluzionari, negli anni 60 come oggi. Tramite un incalzante, a tratti struggente, suono di armonica. Adeguandosi anche alle “mode” e alle inevitabili evoluzioni musicali, certo. Tutti coloro che nel 1965 si sentirono traditi dalla svolta rock non capirono che quello era l’unico modo per portare avanti il folk. Per togliergli quell’etichetta di genere semplice fatto da gente semplice. Bisognava uscire dai confini di struggenti resoconti di dolori personali e voglia di riscatto, bisognava dar loro un respiro più ampio. L’unico modo per farli sopravvivere e per perpetrare il messaggio di cambiamento della musica folk. E lo si poteva fare solo confrontandosi con lo scenario musicale contemporaneo e con i suoi fervori di cambiamento. Lo si poteva fare solo imbracciando una chitarra elettrica.
Il Dylan degli esordi aveva i connotati messianici del giovane folksinger di protesta erede del padre-putativo Woody Guthrie, conosciuto in un ricovero ospedaliero. Era il venerato eroe del Greenwich Village puro ed immacolato, il capostipite del cantautore generazionale senza macchia e padrone del suo destino. Tra gli scarni accordi acustici dello smilzo ragazzo nel freddo newyorkese di “The Freewheelin’” emergeva chiaramente una nuova coscienza politica e sociale. Il seme della discordia sarebbe stato l’incontro del “bardo del Minnesota” con i Beatles, il 28 agosto 1964 a New York. Dylan aveva trascorso con Joan Baez l’intera estate a casa del manager Albert Grossman, mesi di fervido lavoro creativo in cui scrisse “It’s Allright Ma” e perfezionò alcune tracce escluse da “Another Side Of Bob Dylan”, cosucce chiamate “Mr.Tambourine Man” e “Gates Of Eden”. Lo scambio di “fluidi artistici” fra il menestrello di Duluth e gli scarafaggi inglesi ha assunto nel tempo i contorni sfumati della leggenda, ma è innegabile che avrebbe deviato direzione alle rispettive carriere. E fu l’epocale “svolta elettrica”. John, Paul, George e Ringo avviarono la fase adulta e introspettiva della loro musica, Dylan prese semplicemente un amplificatore, si circondò in studio di esperti musicisti ed elettrificò quelle parole che sgorgavano libere dalla sua voce spigolosa e antichissima. Uccise se stesso in quello che sarà il costante leit-motiv dell’enigma dylaniano, spiazzare le attese e la platea conformista. Reinventarsi, cambiare, farsi odiare, farsi adorare, restare se stesso. Per il giovane-vecchio songwriter era giunto il momento di “riportare tutto a casa” e vestire i suoi testi ermetici e colti con il vigore blues delle chitarre elettriche. Nasce dunque “Bringing it all back home”. L’album della svolta, lo spartiacque nella sua discografia. Registrato ai Columbia Recording Studios di New York con pause tra la notte del 13 e il 15 gennaio 1965, in origine doveva suonare completamente elettrico, poi Dylan decise per un lato A acustico e un lato B più “contemporaneo” e rock (ma nelle ristampe la divisione non risulterà così netta). Le session furono dunque dannatamente brevi ed intense. Quasi a significare che il cambiamento doveva essere dirompente, non poteva aspettare. Un album che contiene quelli che ormai sono evergreen e che all’epoca fecero storcere il naso ai puristi del folk. Tra cui “Mr Tambourine Man”, “Maggie’s Farm”, “Love Minus Zero”, “It’s All Over Now Baby Blue”, “Subterranean Sick Blues”… e potrei continuare, ma è meglio ascoltarli. Ognuno potrà trarne le sue conclusioni e decidere dove prevalga il folk, dove il rock, dove il blues. Decidere se il messaggio è squisitamente introspettivo o generale. Decidere se il significato dei testi sia univoco o molteplice di metafore. Decidere in che misura sia un album irriverente e anche sbeffeggiante. Dylan che fa quasi il verso a se stesso e al “rigido” pubblico folk. Una cosa è sicura: il disco ha lasciato il segno, dando respiro ed orizzonte ad una cultura (o meglio ad una controcultura, quella folk), al suo messaggio, alla sua forza propulsiva nell’incidere sulla società. Il compito dell’artista (musicista, cantautore) è realizzato. Esprimendo la propria libertà interiore, rompendo gli schemi delle aspettative, si rinnova e comunica se stesso ad un pubblico sempre più ampio. Buon ascolto.

Sara Fabrizi

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