L’ultimo film di Rob Zombie, che, per chi non lo sapesse, oltre ad essere musicista si diletta anche con la scrittura e la direzione di film per il cinema, si intitola 31, perché “31 è la guerra” (fatevelo bastare).
Voglio spendere due righe in una reviewaste cinematografica CHE CONTIENE SPOILER per descrivere una lettura che ho dato al film che mi pare salvare il titolo dall’accoglienza di serie Z che mi pare stia ricevendo.
Il film aderisce al cliché para-horror del “folli rapiscono un gruppo di persone per un gioco violento”, e per questo il film pare
a) poco appetibile
b) destinato ad una progressione già nota
fatti che sono agli effetti anche veri. Il film non fa altro che svilupparsi e finire come ci si aspetta, pur senza tradire le aspettative splatter dello spettatore.
Dov’è il bello allora?
Iniziamo dall’inizio: il film comincia con un (bel) prologo in bianco e nero che introduce un folle personaggio, killer sanguinario a pagamento chiamato Doomhead. Questo è già interessante, perché difficilmente in un film del genere si introduce “a freddo” un personaggio nuovo a inizio film per riprenderlo solo successivamente, dato che questa pratica è prerogativa solitamente dei soli protagonisti-vittime. Questo trattamento è stato invece in questo caso riservato non agli antagonisti ma ad uno dei personaggi che potevano essere marginali del film.
All’interno dello svolgimento ci sono infatti altri killer inviati nel piccolo inferno privato ad uccidere le sfortunate vittime prescelte che sono in qualche modo equiparabili a Doomhead: Sickhead, Psychohead & Schizohead, Death & Sex.
Viene scelto quindi un “preferito”, come se si volesse far simpatizzare lo spettatore tanto con le vittime quanto con i carnefici.
Oltre ad essere introdotto a inizio film, a Doomhead è anche stato riservato un interessante trattamento privilegiato, che costituisce un altro aspetto interessante.
In questo tipo di film ci siamo sempre chiesti “Ma da dove vengono questi killer? Che fanno, li chiamano a casa e vengono?”. Qui abbiamo la risposta.
“Sì, li chiamano a casa. Quelli escono, si truccano e vanno a uccidere i malcapitati”.
La parte forse più interessante del film è infatti quella che fa vedere come si passa da un uomo che si fa gli affari suoi al pagliaccio travestito e armato che insegue le vittime.
Mostrando l’uomo che si mette il cerone per travestirsi da killer si svela una transizione solitamente sottintesa ma importante.
Vorrei fare un appunto anche su come faccia parte della narrazione della violenza anche il maltrattare la partner sessuale (doomhead lo fa quando molla la prostituta per andare nel luogo del “gioco”). Questo aspetto fa parte del cosiddetto horror psicologico, nella vocazione esorcizzatoria delle frustrazioni che l’horror sicuramente ha.
Ultimo aspetto degno di attenzione è quello relativo agli organizzatori del violento gioco “31”, che mettono su il piccolo inferno privato per godere della violenza e per scommettere sulle probabilità di sopravvivenza. Sul finire del film gli organizzatori, travestiti da nobili del ‘700, si vedono abbandonare i loro travestimenti e le parrucche andando via come persone di tutti i giorni.
Oltre a riconfermare così l’intenzione di svelare la transizione da/verso la propria personalità violenta, ho visto in questi personaggi una allegoria degli spettatori del film.
Dalle nostre vite quotidiane, guardando un film horror ci eleviamo a spettatori distaccati e superiori di un gioco violento, scommettendo dal divano di casa su chi morirà per primo.
Noi spettatori come i 3 personaggi travestiti da nobili settecenteschi.
Tutto il gioco, e quindi il film, è perciò una allegoria del film horror e di come esso viene fruito da chi guarda.
Non vorrei con questa lettura aver visto la luna nel pozzo, ma ho voluto guardare più in là dello stereotipo di Rob Zombie che fa un film con weird, motoseghe e nani killer in cui Sheri Moon Zombie (sua moglie) non muore e si lancia un personaggio da riciclare.
A voi.