Spaesato? Leggi la guida!
- Artista: First Frost
- Album: First Frost (EP)
- Anno: 2017
- Genere: Alternative
- Durata: 16:16
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1.
No Sleep 05:10
2.
Why Shouldn’t I 05:06
3.
Wild in the Wake 05:59
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Le recensioni dei nuovi album fatte dalla redazione di Collective Waste Radio
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1. |
No Sleep 05:10 |
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Why Shouldn’t I 05:06 |
3. |
Wild in the Wake 05:59 |
Si tratta di un progetto di musica elettronica sperimentale ad iniziativa della netlabel californiana Land Animal Tapes, che rilascia dischi in cassette in serie limitata e in formato digitale con la formula del “name your price”, ossia paga quanto vuoi.
A questo progetto hanno partecipato diversi artisti, con un leitmotiv più o meno comune e apportando ognuno il suo contributo stilistico. Si tratta di musica d’ambiente sì, ma per un ambiente particolare. Per una stanza vuota semibuia dove si medita, per uno spazio dove si legge, per uno stanzone industriale con opere d’arte, per una lunghissimo viaggio in aereo.
La raccolta nel complesso fa leva sulla delicatezza e l’ispirazione della composizione elettronica che non guarda indietro a nessun canone e sta solo a creare una atmosfera sonora da respirare.
Il primo volume è a firma TüTH / Heinali e si apre con suoni campionati prettamente elettronici e da un digeridoo, i cui echi formano sequenze ritmate ed immersive. Non si fossilizza e osa suoni orecchiabili prestati da altri generi come l’hip-pop.
Il secondo volume si dedica completamente ai sintetizzatori più “vecchia scuola”, ed è ad opera di Scattered Purgatory / Eolomea. È quello dai tempi più dilatati con 1 ora in 2 brani che procedono per grado di concentrazione sonora verso una rarefazione quasi completa.
Il terzo volume apre in continuità con il secondo, e con “Music for Imaginary Scenarios” si intraprende lentamente un viaggio in un mondo che vede l’equivalente sonoro di una vallata popolata da strane ritrose creature immaginarie. Chiusa la traccia di Anders Brørby se ne aprono 4 di Oomny Mozg tutte dallo stesso titolo (testa nera) ma sottotitolate diversamente a significare una suddivisione per capitoli di una stessa traccia più che per tracce diverse. Ogni brano utilizza sintagmi sonori affini al suo titolo: un ritmo rituale condensatamente orientale per il filisteo, la voce umana per il professore, il cinematic per il terzo uomo, un suono tratteggiante per lo scriba.
Il quarto ed ultimo volume vede la coppia Aidan Baker X Lärmschutz dove la X sostituisce la / tipica degli split album, a suggerire che i brani sono composti a quattro mani. Aidan Baker è forse più noto rispetto agli altri per le sue molteplici composizioni di buon successo nel suo genere.
Ci troviamo qui davanti all’espressione più autentica della composizione minimale elettronica ambientale contemporanea. In due atti per un totale di 40 minuti si è trasportati con un ascolto che sprofonda da subito e per la sua intera durata. Per la pace dei sensi e la meditazione tanto quanto per un ascolto attento, come si conviene ai capolavori.
Complimenti a tutti gli artisti e alla label per un progetto davvero ben riuscito.
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1. |
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2. |
Treat Your Speakers 04:19 |
3. |
Set The Record Straight 04:10 |
4. |
Rastasafarian 04:20 |
5. |
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Every God Damn Night 04:20 |
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Danny At The Denny’s Lot 04:20 |
10. |
Somethin’s Brewin’ 02:11 |
11. |
Gum Stuck Up In It 03:24 |
12. |
Cuppa Sugar 01:13 |
13. |
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14. |
Have Ya Heard? 04:20 |
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1. |
Peaceful Isolation 04:42 |
2. |
Castle 05:13 |
3. |
Genesis 03:29 |
4. |
Returning a Simple Favor 04:32 |
5. |
Spaesato? Leggi la guida!
1. |
Társas magány 04:29 |
2. |
Mindenki 03:53 |
3. |
Kapaszkodó 04:59 |
4. |
Ramóna képei 02:49 |
5. |
Cannibal 03:37 |
6. |
Tiszta arccal 03:51 |
La formazione vive a cavallo tra Bologna e Firenze fin dal 2013, ed è al suo secondo EP. Pubblicheranno a fine mese il loro secondo EP dal titolo Big Domino Vortex, che a me fa pensare alla colonna sonora di questo:
Il sound è tra lo shoegaze più classico e le sue sonorità invece più contemporanee, specialmente SIRIO che ricorda piacevolmente gli A Place To Bury Strangers.
Sicuramente ispirati, cavalcano l’onda dei fuzz e dei feedback lunghi nell’aria dagli anni ’90 ad oggi. Negli anni appena trascorsi questo genere ha infatti visto nuova luce grazie alle zaffate no wave di derivazione underground e afferra le radici di quel noise pop che sta prendendo piede anche in Italia (vd. italogaze) influenzando i testi sulla banalità e la superficialità di un certo vivere contemporaneo di più di qualche giovane cantautore italiano.
Un bell’ascolto.
Saranno sul palco del Monk di Roma il 27 Gennaio a presentare questo EP insieme a Weird. e Tiger! Shit! Tiger! Tiger! .
dal loro precedente demo BLURRED DREAMY CLOUDY FUZZY SOMETHING
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1. |
The Kitchenettes 02:36 |
2. |
The Futurist 03:09 |
3. |
The Tourniquet 03:04 |
4. |
The Proprietor 03:37 |
5. |
The Peddler 04:22 |
6. |
The Solipsist 02:00 |
7. |
The Tumor 02:48 |
8. |
The Triptych 03:17 |
9. |
The Sunroom 03:13 |
Autore: Simon & Garfunkel
Titolo Album: Sounds Of Silence
Anno: 1966
Casa Discografica: Columbia Records
Genere musicale: folk rock
Voto: 8
Tipo: LP
Sito web: http://www.simonandgarfunkel.com/
Membri band:
Paul Simon – voce, chitarra
Art Garfunkel – voce
Glenn Campbell – chitarra
Hall Blaine – batteria
Tracklist:
1. The Sound Of Silence
2. Leaves That Are Green
3. Blessed
4. Kathy’s Song
5. Somewhere They Can’t Find Me
6. Anji
7. Richard Cory
8. A Most Peculiar Man
9. April Come She Will
10. We’ve Got A Groovey Thing Goin’
11. I Am A Rock
Il secondo album del già emblematico duo folk arriva nel 1966. Non un anno qualunque, bensì l’anno della maturazione del rock americano. Escono nel 1966 Pet Sounds, Revolver, Blonde On Blonde. Tutti album cruciali che segnano, nella discografia e nell’approccio all’arte dei relativi autori, la fine dell’età dell’innocenza e della spensieratezza per approdare alla riflessività ed inquietudine dell’età adulta. Ed è anche un passaggio epocale: il decennio 60s dopo lo splendore dei primi anni rivela le sue contraddizioni, le sue falle, le sue inquietudini, le sue ombre. La guerra del Vietnam e un pubblico di giovani non più giovanissimi, ma ormai adulti, che non ancheggiano più dinanzi ai juke box a suono di rock’ n ‘roll ma che riflettono, contestano, fuggono dalla realtà. E la Musica come sempre diventa specchio della società, delle sue istanze, delle sue richieste. In questo contesto calza a pennello il folk rock soave ma a tratti amaro di Simon & Garfunkel. L’album precedente, Wednesday Morning, 3 A.M., come noto, non fu un successo immediato anche se pose le basi per il loro futuro e forgiò il loro stile unico. Ed è con questo primo album che il secondo condivide una canzone, The Sound Of Silence. Embrionale, scarna, solo voci e chitarra acustica la versione del ’64, elettrificata e con l’aggiunta di altri strumenti la versione del ’66. Una nuova versione voluta dalla casa discografica che aveva subodorato che hit sarebbe potuta diventare se “ammodernata” secondo l’elettrificazione a cui il folk rock stava cedendo in quel periodo. E così fu. Paul e Arty ci si ritrovarono quasi dentro e batterono questa strada. Il periodo che Paul Simon aveva trascorso in Inghilterra ne alimentò la vena poetico-compositiva e ne affinò la tecnica durante le sue esibizioni nei club inglesi. L’uggiosa Gran Bretagna con le sue atmosfere malinconiche e rarefatte fu fertile humus per le storie intimiste raccontate dal nostro cantautore e che non aspettavano altro che incontrare la voce soave di Art Garfunkel. Nacque così Sounds Of Silence. 11 tracce registrate nel dicembre del 1965 presso i CBS Studios di Nashville e pubblicate il 17 gennaio 1966. L’intero album è pervaso da un’atmosfera autunnale, da un forte richiamo alla ciclicità delle stagioni della vita, dal passaggio dalla giovinezza spensierata al disincanto dell’età adulta. Un suono dolce ed avvolgente che veicola storie che, per contrasto, raccontano del freddo dell’anima, delle disillusioni, della solitudine. Lo avevano intuito bene i nostri folksinger che aria tirava. Avevano capito che di fronte alle inquietudini che stavano facendo capolino nella società del periodo i giovani avrebbe avuto voglia di fuggire. E avrebbero cercato altrove la loro dimensione, chi nella psichedelia, chi nelle droghe, chi in un forte impegno sociale, chi in un mondo quasi incantato dove solo poter riflettere e leccarsi le ferite. E quest’ultima dimensione esistenziale è quella a cui apre la musica di Simon & Garfunkel. Ogni pezzo di Sounds Of Silence è intriso di questo sentimentalismo amaro, di questa perdita di ingenuità, di questa maturazione socio-musicale. The Sound Of Silence apre l’album ed è, come già detto, il singolare caso della title track. Forte della sua malinconia aggraziata e del suo accattivante impatto elettrico diventa un pezzo miliare del folk rock. Ed esprime meglio di qualunque altra canzone al mondo il tramonto di un’era, la desolante atmosfera della “fine della festa” (o dell’estate) in cui ormai tutti sono andati via: sono rimasti solo due ragazzi (vedi la copertina dell’album), una chitarra e il silenzio che li avvolge nel freddo della notte, trasportandoli in un mondo poetico e visionario. Il secondo brano è Leaves That Are Green, un pezzo più esuberante ma comunque emblematico del rapido trascorrere del tempo. Ricorre alla classica immagine delle foglie autunnali che celano il ricordo di amori perduti, di una passata stagione in cui le foglie erano ancora verdi e il cuore era pieno d’amore. Il suo ritmo delicato ricorda le composizioni dei menestrelli medievali. Una lieve allegria, o meglio una malinconia più serena, che veicola un tema non propriamente allegro. Il terzo brano è Blessed. Un bel ritmo, belle le chitarre elettriche e la batteria. Un bel crescendo. Sta maturando il nostro duo e qui dà prova di saper suonare il rock. Il quarto pezzo è Kathy’s Song. Meravigliosa ballad, il ricordo di un amore perduto. Suoni morbidi ed acustici, malinconia evocativa, vero momento di estasi artistica. Un brano che si cuce addosso a Paul e Arty come una seconda pelle. Il quinto pezzo è Somewhere They Can’t Find Me. Qui si parla della fuga dagli uomini, della preferibilità della solitudine. Il tutto reso da una ritmica incalzante e da un sax che conferisce vigore. Il sesto brano è Anji. Interamente strumentale, forse una prova, riuscitissima, del virtuosismo e della tecnica di Paul Simon. Il settimo pezzo è Richard Cory. Si narra la storia di questo Richard e le sue inquietudini. C’è il tema della fuga, non solo dagli uomini ma anche dalla vita stessa. A veicolare ciò ci sono chitarre e batteria incalzanti e una decisa prestazione vocale di Arty. L’ottavo pezzo è A Most Peculiar Man. Qui torniamo nell’alveo della dolcezza malinconica resa da armonizzazioni vocali lievi ma incisive e perfette, come sempre. Quindi giungiamo al nono pezzo, April Come She Will. Breve, struggente, brano a metà fra una filastrocca per bambini e una storia incantata. Un pezzo che tratta il tema della ciclicità delle stagioni reso simbolicamente dal racconto di un amore che sboccia in primavera per concludersi in autunno. Ripreso da una canzone popolare, una ninna nanna, che si perde nella notte dei tempi, ha questo sapore agrodolce di una nostalgia quasi atavica, quasi connaturata alla caducità della vita stessa. A mio parere uno dei massimi vertici espressivo-evocativi del folk rock. Merita di essere trascritta tutta: “April come she will when streams are ripe and swelled with rain;
May, she will stay, resting in my arms again. June, she’ll change her tune, in restless walks she’ll prowl the night; July, she will fly and give no warning to her flight. August, die she must, the autumn winds blow chilly and cold; September I’ll remember a love once new has now grown old.”
Il decimo brano è We’ve Got A Groovey Thing Goin. Unica vera concessione dell’album al rock’n’roll di cui ripropone le ritmiche e le espressioni tipiche (“Baby, baby”). Ma si percepisce qualcosa di amaro, nel testo ma anche nella musica, che si pone in stridente contrasto con lo spirito tipicamente gioioso e leggero del rock’n’roll. A chiudere l’album è I Am A Rock. Il termine rock non si riferisce al genere musicale, bensì alla semplice e nuda roccia. L’elemento naturale che tenta di resistere agli urti della vita. Metafora della perdita di sensibilità, dell’indurimento, della mancanza di sentimenti che spesso sopraggiungono dopo aver sperimentato i dolori della vita. Esseri umani reificati allo stato di una roccia. Uomini che, pur di non soffrire più, scelgono di diventare freddi e insensibili, trovando nella poesia l’unico conforto. “ I am a rock, I am an island..”. “ And a rock can feel no pain, and an island never cries”. Un canto di resa, di abbandono. Una musica delicatamente ritmata e a tratti allegra cela una riflessione amara. Contrasto stridente ma stupendo. I nostri due timidi folksinger sono cresciuti e ora sfornano veri capolavori.
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1. |
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2. |
192 tentacles 04:02 |
3. |
Celebcore 04:52 |
4. |
Einsteinic Death Model 05:57 |
Spaesato? Leggi la guida!
1. |
Shapes 01:46 |
2. |
space invader 02:16 |
3. |
Ominous 02:13 |
4. |
Drop 01:25 |
5. |
Message 00:14 |
6. |
Sulfamethazine 01:39 |
7. |
Dissipation 02:13 |
8. |
Settle 01:52 |
9. |
Permeate 01:36 |
10. |
Collide 01:12 |
11. |
rock and/or roll 02:05 |
12. |
Troposphere 03:18 |
13. |
Strike 00:49 |
14. |
Sense 01:20 |
15. |
Dry 00:27 |
16. |
Break 03:22 |
17. |
Connect 00:35 |
18. |
Creep 01:52 |
19. |
Phase 00:49 |
20. |
Sonar 01:00 |
21. |
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22. |
Absorb 03:43 |
23. |
Particulate 01:07 |
24. |
Formation 01:26 |
25. |
Synthesize 01:05 |
26. |
Static 01:11 |
27. |
Sweep 01:16 |
28. |
Agitate 04:56 |
29. |
the clouds are smiling 05:16 |