Chi non ha visto il film “Il Laureato” dovrebbe farlo. Se non per l’interpretazione di un giovanissimo e promettente Dustin Hoffman, se non per la storia di introspezione di un giovanotto che non trova un suo posto nella realtà che lo circonda e si lascia andare “alla deriva” finchè sarà l’amore a salvarlo, fatelo per la colonna sonora.
Scena iniziale: il protagonista sui tapis
roulant dell’aeroporto sulle note di “The Sound of Silence”, tema trainante di tutto il film. Canzone straordinaria ed evocativa, già nella sua primissima versione, embrionale rispetto a quella definitiva arrivata al successo col film. Il regista Mike Nichols ci aveva visto lungo nell’affidare la sound track del suo film a due ragazzi che, dopo un inizio quasi in punta di piedi, stavano diventando stelle nel firmamento della musica folk rock.
Paul Simon e Arthur Garfunkel, quella che verrà definita la coppia d’oro del folk rock anni ’60. Dietro il successo inarrestabile che esploderà verso la fine del decennio, ponendo l’apice della loro avventura musicale, una storia di “convivenza” difficile, fatta di liti e ricongiungimenti, un classico quando a collaborare sono 2 personalità tanto diverse quanto creative e complementari l’una per l’altra. Un duo burrascoso ma assolutamente geniale, la ricetta perfetta per chi voglia sfornare pietre miliari. All’inizio è solo una bella amicizia: due ragazzini dalla faccia pulita, appartenenti alla buona borghesia ebraica di Forest Hills, Queens, quartiere periferico di New York. Paul Simon e Art Garfunkel abitano a tre isolati di distanza l’uno dall’altro e si conoscono dai tempi della scuola media, da quando hanno dodici anni. Esteticamente e caratterialmente agli antipodi: di piccola statura e aspetto quasi scimmiesco il primo; alto, biondo e angelico il secondo. Tanto polemico, graffiante e perfezionista Simon, quanto gentile, fragile e poco incisivo Garfunkel. Fin dalle prime recite teatrali scolastiche i due si mostrano interessati alle luci della ribalta, sembrano a loro agio con pubblico ed applausi. In particolare Paul (nato il 13 ottobre 1941), che ha ereditato dal padre, bassista e sessionman di un’orchestra televisiva, l’amore per la chitarra e per la musica. Dalla sua Arthur (nato il 5 novembre 1941) ha una presenza scenica che rimedia ai suoi difetti artistici (non scrive testi né compone le musiche) e che gli aprirà le porte del cinema.
I ragazzi crescono nell’America del dopoguerra, delle radio e del boom economico. Si appassionano al rock n’ roll di Elvis Presley e al soul/rhytim n’blues dei neri. Con una particolare predilezione per il cristallino pop e le armonie vocali degli Everly Brothers, autentici idoli guardati con rispetto e desiderio d’emulazione. Nel 1957 registrano per quindici dollari un provino di “Hey Schoolgirl”, tra le primissime canzoni, e la fanno arrivare sulla scrivania di Sid Prosen, discografico dell’etichetta Big Record. Deliziato dalle voci e dalle possibilità artistiche dei due, nonché dal denaro che potrebbe fare lanciando Paul e Artie sul mercato dei teen idol, Prosen decide di scritturarli. Con i nomi d’arte Tom Graph (dalla mania di Garfunkel per il disegno di grafici e classifiche) e Jerry Landis (cognome di una fidanzata di Simon) stampati in copertina, “Hey Schoolgirl” fa il suo esordio in classifica salendo fino al n. 49. Con il nome, giocoso e infantile, di “Tom and Jerry” viene impiantato l’embrione di quello che nel giro di pochi anni sarebbe diventato un duo rock da poter reggere il confronto con un mostro sacro quale Bob Dylan. Nel 1959, finito il liceo, la coppia si separa: Garfunkel va a studiare architettura alla Columbia, mentre Paul alterna gli studi di letteratura inglese al Queens College con l’attività di cantautore in piccoli locali del Greenwich Village per guadagnarsi da vivere e sbarcare il lunario.
Dopo la laurea (1963) e alcuni interessanti viaggi in Francia, Caraibi, Sud Africa e Brasile (decisivi per la futura passione in materia world-music), Paul ritrova anche il vecchio amico Art, che ha nel frattempo inciso due 45 giri con falso nome. Dopo averlo coinvolto in alcuni dei suoi lavori di sessionman (con nuovi pseudonimi: Paul Kane, True Taylor, Tico & The Triumphs), Simon introduce l’amico ad alcune sue composizioni originali nello stile del folk acustico. L’idea è di abbandonare il mondo dei teen idol per qualcosa di nuovo. “Sparrow”, “Bleecker Street” e “He Was My Brother”: questi sono i titoli di quelle prime canzoni proposte al pubblico dal duo (che finalmente si presenta come “Simon & Garfunkel”) nelle coffee house del Village intorno all’autunno 1963. Il piccolo seguito di culto newyorkese e il ritrovato sodalizio artistico con l’amico bastano a Simon per decidere di abbandonare gli studi di legge alla Brooklyn Law School e investire tutto sulla musica. Colpito dalle potenzialità della coppia, Tom Wilson della Columbia (produttore di Dylan) decide di mettere sotto contratto Simon & Garfunkel e far loro incidere il primo album. Una scommessa che risulterà vincente.
“Wednesday Morning, 3 AM” è il loro album d’esordio. Un disco scarno e acustico, sorprendente per l’eclettismo di due ventiduenni. La prima grande occasione per ascoltare le loro meravigliose armonie vocali. C’è la novità e c’è la tradizione: dodici canzoni in poco più di quaranta minuti. Un primo abbozzo di personalità, tra cover pop (“You Can Tell The World”, con gli Everly Bros. nel cuore) ed esoterismo (il canto liturgico cattolico “Benedictus”), country/folk (“Last Night I Had The Strangest Dream” di Ed Mc Curdy), traditional (“Peggy-o” e “Go Tell the Mountain”) e tributi dylaniani appassionati (“Times They’re A Changin”). Tra i cinque episodi originali spicca senz’altro la versione embrionale del futuro classico “The Sound Of Silence”, registrato per sole voci e chitarra acustica. Nonostante sia stata ascoltata e cantata miliardi di volte, questa prima versione ha il potere di impressionare e far rabbrividire ancora oggi, grazie alla sua arcana, oscura ed enigmatica bellezza. Paul Simon tocca uno dei suoi vertici espressivi: riesce ad inserire metafore e letteratura sul tema dell’incomunicabilità umana, racconta sogni e incubi con una lucidità poetica autentica e inarrivabile, riuscendo nel tentativo ultimo di fornire un suono al silenzio. In questo pezzo l’apice, insomma, della sua vena creativa, del suo stile assolutamente personale e privo di precedenti.
Terminate le session di registrazione dell’album (tre giorni nel marzo ’64) Paul decide di cambiare aria e trasferirsi temporaneamente in Inghilterra, attratto dalle luci della “Swingin’ London” e dalla possibilità di farsi conoscere nei locali folk d’oltreoceano. Qui trova l’amore di una ragazza (la mitica Kathy Chitty, immortalata in classici come “America” e “Kathy’s Song”), ha modo di viaggiare attraverso il paese e affinare la sua tecnica alla chitarra folk. Si esibisce nei locali per poche sterline, scrive nuovi brani nelle stazioni ferroviarie. Sperimenta nuovi modi di vita e ne trae spunti ed ispirazione. Nell’autunno del 1965, mentre un ignaro Simon continua a esibirsi nei locali folk britannici, accade qualcosa di inaspettato e decisivo per il futuro del duo musicale.
Il produttore discografico Tom Wilson ha una grande idea: recuperare uno dei pezzi forti dell’album precedente di S &G, “The Sound Of Silence”, e regalargli una nuova veste elettrica, secondo la recente moda di Dylan e del folk-rock, secondo il trend del periodo. Chiama così in studio i sessionmen Bobby Gregg (batteria), Bib Bushnell (basso) e Al Gorgoni (chitarra elettrica) e fa loro sovraincidere le rispettive parti sull’originale. Il risultato è convincente: la Columbia decide all’insaputa totale degli autori di far uscire il pezzo a 45 giri. In brevissimo tempo la canzone vola al primo posto delle classifiche, vende un milione di copie e costringe uno spiazzato Paul Simon al precipitoso ritorno in patria. La coppia “scoppiata” del folk rock si ricongiunge. Il successivo scalino è la registrazione di un altro album, e stavolta tutti gli occhi sono puntati su di loro.
Ed è la volta del loro secondo album: “Sounds of silence”. Prodotto da un’altra vecchia conoscenza dylaniana, Bob Johnston, l’album può accostarsi ai grandi successi folk rock del periodo, in perfetto allineamento coi vari Mamas & Papas, Lovin’ Spoonful, Buffalo Springfield e Byrds. Chitarre elettriche, tastiere e sezione ritmica danno nuova forma e sostanza a brani già memorabili: “Richard Cory” (ispirata da un poema ottocentesco di Edwin Robinson), “Blessed”, “I Am a Rock” e “Somewhere They Can’t Find Me” risplendono di nuova luce, convincono e fanno innamorare il nascente pubblico degli hippies. Pochi, ma sublimi i momenti acustici: basta ascoltare la delicata e autobiografica “Kathy’s Song” o l’altrettanto impalpabile “April Come She Will” per convincersi del felicissimo momento creativo vissuto allora (e per molti anni a seguire!) da Paul Simon. L’album fa la sua comparsa nei negozi a metà gennaio ’66, salendo in un mese fino al n. 21 delle chart statunitensi e rimanendovi per ben 143 settimane.
Il grande passo è ormai compiuto: Simon & Garfunkel con il loro folk misurato e gentile non sono più fenomeno locale. Amatissimi dal pubblico studentesco dei college e dei circoli letterari, i due preferiscono tuttavia non prendere la via del forte impegno politico e sociale che assorbe l’America in quegli anni: l’assassinio di Kennedy (che pure ispirò la stesura di “Sound Of Silence”), la guerra bruciante nel Vietnam e quella fredda con la Russia, Martin Luther King e Malcolm X, il dramma del razzismo e le lotte per i diritti civili. Una scelta di “non allineamento”, o “disimpegno” che dir si voglia, che si rivela una presa di posizione paradossalmente più evidente dell’impegno politico, dello schierarsi. Scelta singolare che fa discutere, alienando alla coppia il consenso di molti giovani radicali e politicizzati. Scelta che i due porteranno avanti comunque. Anche a costo di qualche fan in meno. La verità è che l’aria rivoluzionaria di cambiamento che alimenta i cuori dei giovani è certamente condivisa dalla coppia, che però preferisce prendere le distanze quando tutto ciò significa appoggio politico a un candidato, impegno nella guida di movimenti, proclami o manifesti. Paul e Artie desiderano concentrarsi sul lavoro di songwriter: lambire i confini della controcultura senza mai esporsi oltre un certo limite, rimanendo nell’alvo dei tormenti dell’animo umano. Esprimerne le emozioni nella maniera più fedele possibile. E i due ci riescono, brillantemente. In “Sound of silence” riescono a far percepire davvero che suono ha il silenzio…
Prima che il ’66 finisca, la coppia è tornata in azione: durante l’estate si sono accumulate tante idee, prontamente impresse su nastro. Il progetto stavolta è ancora più ambizioso: liberarsi dalle pressioni della casa discografica in materia di produttore e decidere in prima persona sulle soluzioni da adottare. La Columbia, galvanizzata dai successi, non ha problemi a concedere il pieno controllo artistico sull’opera in cantiere. Nasce il loro terzo album:”Parsley, Sage, Rosemary & Thyme”. Con le sue canzoni dai titoli impegnativi, è un altro tassello imperdibile. La formula morbida e garbata del duo non sembra cambiare di molto. Tornano semmai oniriche ambientazioni acustiche ispirate al patrimonio popolare (“Scarborough Fair”), dolcissime dichiarazioni d’innocenza (“Cloudy”, “Dangling Conversation”) e amare invettive (l’accostamento nell’ultimo brano del traditional “Silent Night” con un drammatico bollettino radiofonico). Anche il processo compositivo rimane lo stesso: Paul scrive testi e musiche; insieme a Garfunkel le perfeziona e le arrangia in studio; canta col partner le tracce definitive. Come il precedente, anche quest’album è premiato a furor di popolo, spuntando un lusinghiero n. 4 (per 145 settimane) negli States.
Subito dopo l’uscita autunnale, la coppia si imbarca nella prima massiccia tournée americana: un fiume di date che li vede esibirsi senza sosta tra campus universitari e prestigiose “Simphony Hall”, sera dopo sera, un viaggio lungo ed estenuante. Il culmine del giro di concerti è certamente raggiunto con l’apparizione al Monterey Pop Festival (giugno 1967), la prima grande kermesse di talenti dell’era psichedelica: Paul (tra gli organizzatori) e Artie si esibiscono in uno stadio da 50.000 persone, salutati come nuovi profeti alla stregua degli altri grandi ospiti (da Jimi Hendrix a Janis Joplin, da Otis Redding a Byrds, Who e Buffalo Springfield). Il battesimo ufficiale del nascente popolo della “Summer Of Love” dona nuova linfa al duo che, a fine anno, riceve un’altra proposta, ancora più allettante: il regista Mike Nichols offre loro la possibilità di curare la colonna sonora del suo film “Il Laureato”, con un giovane Dustin Hoffman agli esordi. I ragazzi accettano con entusiasmo, il clamoroso boom della pellicola è ormai storia. La colonna sonora di “The Graduate” irrompe sul mercato direttamente al n. 1 delle classifiche (febbraio ’68), trainata in vetta dal fortunato singolo anch’esso al vertice per tre settimane.
Il 1968 è certamente il loro momento d’oro dal punto di vista commerciale. Oltre al successo del film (Grammy Award per la colonna sonora; “Mrs. Robinson” votata canzone dell’anno) arriva anche quello per l’album “Bookends”, nuovamente in cima alle chart americane e inglesi contemporaneamente. Prodotto per la prima volta in proprio, l’album contende al successivo il titolo di grande capolavoro di Simon & Garfunkel. L’impressione è quella di un percorso artistico che giunge ad un apice espressivo, come se gli album precedenti fossero in qualche modo preparazione graduale a questo lavoro. L’emulazione di stilemi, codici e linguaggi sembra superata: S & G mettono in discussione le proprie radici e influenze (Everly Brothers, Dylan, folk, rock) per reimpostare un discorso musicale il più personale possibile. E’ un disco discreto, che nulla inventa, ma molto sottintende. Dodici canzoni in stato di grazia, da ascoltare tutte d’un fiato, senza momenti morti o brani/riempitivo. Dentro c’è la versione definitiva di “Mrs. Robinson”, con l’intro ritmata di voci e quel ritornello mandato a memoria da almeno tre generazioni. Per non parlare di “America”, un’altra ballata autobiografica, tra le migliori dell’intero songbook di Simon.
A seguito di un anno ricchissimo di soddisfazioni commerciali e artistiche, se ne apre un altro a basso profilo. Lontano da clamori e classifiche, il 1969 vede l’aggravarsi del rapporto di coppia tra Paul e Artie. I due si frequentano sempre meno, si fatica a trovare un equilibrio artistico come solo pochi anni prima. Nonostante i dissapori si lavora: canzoni inedite per un nuovo album che, però, si rivela di lunga e laboriosa gestazione. Passano i mesi e non sembra esserci niente di concreto. Di fatto, l’unico disco di S & G a vedere la luce nel ’69 è il singolo “The Boxer”, grande successo (n. 7 USA; n. 6 UK) e bellissima canzone sulla tristezza della solitudine e dell’abbandono, pezzo di notevole grazia acustica. Il resto dell’anno passa tra incomprensioni e allettanti, inediti sbocchi di carriera: come quello capitato a Garfunkel, che accetta l’invito di Mike Nichols (una vecchia conoscenza) a far parte del cast del suo nuovo film, “Comma 22”. Il regista assicura ad Artie che le riprese (in Messico) non lo distoglieranno troppo dal lavoro in studio e che non gli ruberanno più di un paio di mesi. Lui accetta comunque, sicuro che un periodo di “disintossicazione” dall’amico non potrà che giovare agli equilibri interni del duo. Le cose non vanno comunque per il verso giusto: la pellicola richiede ulteriore tempo e Simon, per la prima volta, si sente snobbato, messo da parte. Inizia a scrivere canzoni, tra l’amaro e il malinconico, su questa perdita temporanea.
Al ritorno dell’amico dal Sud America, la coppia porta finalmente a termine il lavoro, dopo mesi e mesi di ritardi e rimandi. Artie ancora non lo sa, ma Simon ha già rivelato a Clive Davis della Columbia l’intenzione di sciogliere il duo, poco dopo l’uscita del disco nuovo, che rimarrà l’ultimo in carriera. “Bridge Over Troubled Water” (gennaio 1970; n. 1 in USA e UK) fa quindi storia a sé, album fortunatissimo (oltre 10 milioni di copie vendute) e lodato dagli artisti stessi che, malgrado tutti i problemi, lo reputano il loro migliore di sempre. Tutto è davvero in magica armonia: le parti vocali, gli arrangiamenti, i testi, le musiche. Questo è il loro capolavoro, l’apice di tutta la loro carriera, il loro “canto del cigno”. La title track, con la celeberrima intro di piano, offre l’interpretazione vocale più convincente di Garfunkel: una ballata romantica e splendida, che cresce d’intensità fino all’esplosione orchestrale e al coraggioso acuto finale. “Bridge Over Troubled Water” è il disco del futuro e dei progetti dell’età adulta. L’ultima pagina di una storia che offre fin troppi spunti di riflessione sull’attività solista della coppia. Che però a quel punto non è neanche più tale: arriva infatti, puntuale come previsto, la notizia ufficiale dello scioglimento.
A livello umano (attenzione: non artistico) non è più possibile andare avanti, le divergenze caratteriali e le ambizioni sono troppe e diverse. Serve a poco la nuova incetta di Grammy Awards, così come la certezza di essere in quel momento tra i gruppi musicali più celebri del pianeta. Paul e Art dividono le loro strade.
La carriera di Garfunkel proseguirà nei sicuri binari del pop melodico, snobbato dalla critica che conta, Artie continuerà così senza tonfi o scossoni. Diversamente da Simon, che troverà una nuova Mecca in Africa e Brasile, testimoniando con album storici e osannati (Graceland; Rhythm Of The Saints) l’amore infinito per diverse culture sonore. Con buona pace dell’amico, a Simon si può attribuire il merito di aver cambiato col suo estro pop il volto della popular music mondiale. Ma va detto che senza l’angelica voce di Garfunkel non avremmo mai vissuto il mito, non avremmo fantasticato su quelle splendide armonie vocali. Tanto diversi quanto complementari e necessari l’uno all’altro, per far vivere il loro mito.. Simon & Garfunkel sono tornati occasionalmente a suonare insieme. Come nel 1981, quando a New York tennero il Concert In Central Park davanti a 500.000 persone, oppure nel 2004, per un lungo tour mondiale che ha toccato anche l’Italia, con una memorabile esibizione al Colosseo. A noi restano pezzi memorabili, evocativi, leggiadri, soavi. A noi restano armonie che vanno ad inserirsi nei meandri più atavici ed onirici dell’animo umano. A noi resta una candida, disarmante, ammissione di fragilità umana in “The Boxer”: “All lies are jest, still the man hears what he wants to hear and disregards the rest…”. A noi resta l’onore di aver potuto percepire che suono ha il silenzio.
Sara Fabrizi