JONI MITCHELL: IL FOLK CON IL VOLTO DI DONNA

joni-mitchellIl Folk americano come noi lo conosciamo è fatto essenzialmente di tematiche sociali e di impegno. Così abbiamo imparato a conoscerlo, almeno nel primissimo Dylan. Poi lo stesso menestrello d’America si staccò da quella base fatta solo di impegno sociale per affrontare tematiche più intimiste e personali. Com’è giusto che sia. Un cantautore non può prescindere dalla realtà sociale in cui è immerso, nemmeno però può non tener conto del suo animo, della sua intimità e profondità psicologica. E’ la solita tensione fra pubblico e privato, fra impegno ed espressione personale, che da sempre attraversa la manifestazione artistica e dunque anche la musica. Tale tensione la sentiamo particolarmente nel folk dove di volta in volta gli autori si sono misurati con la scelta di dar risalto al mondo in cui vivono oppure al mondo che hanno dentro. E dove il Folk diventa “confessionale” nel senso di intimista, romantico e sofferto incontriamo, guarda caso, una donna… Lei oggi ha 71 anni e conserva ancora, a dispetto del tempo, i lunghi capelli biondi e la freschezza di quando era una ragazzina. La donna in questione si chiama Joni Mitchell.
Nasce in Canada e fin da bambina mostra una spiccata propensione artistica nel suonare pianoforte, ukulele e chitarra. L’esperienza della poliomelite forgerà in qualche modo la sua anima artistica come solo la sofferenza, talvolta, può fare. Da qui inizierà a comporre le sue prime poesie, ponendo così le basi della sua carriera di cantautrice. Dopo la scuola superiore si iscrisse solo per un anno all’Alberta College of Art di Calgary, ma capì subito che la sua passione per la pittura, la poesia e la musica era tale che doveva essere espressa liberamente. Cominciò allora ad esibirsi in giro per il Canada in vari club di musica dal vivo e nei piccoli festival musicali tra cui quello prestigioso di Mariposa. Dopo il breve matrimonio con un musicista si trasferì a New York dove incontrò Elliot Roberts, che diventerà il suo manager, ma anche l’ex-Byrds David Crosby, ai quali presentò i suoi brani. Li seguì in California, nuova frontiera della scena folksinger. Tra questi, c’era anche Judy Collins, che cominciò a incidere pezzi scritti dalla Mitchell come “Both Sides Now”. Quando nel 1968 Joni debuttò su album omonimo il suo nome non era sconosciuto. Ma fu la pubblicazione del secondo lavoro “Clouds” che accrebbe la sua popolarità, tanto che “The Voice” Frank Sinatra interpretò immediatamente la sua “Both Sides Now” e venne invitata al Festival di Woodstock, che però disertò, su consiglio del suo manager Roberts. In cambio, però, incise la celeberrima “Woodstock” che venne poi inserita sia nella colonna sonora del film-documentario sia nel suo terzo lavoro del 1969 “Ladies Of The Canyon”. Immediati furono i responsi positivi di pubblico e di critica per questo concept album incentrato sul tema dell’inadeguatezza e dell’inquietudine esistenziale, trattato con una sensibilità tipicamente femminile. Qui emerse la grande abilità compositiva della cantautrice canadese, oltre a un pugno di gradevoli e orecchiabili melodie, accompagnate ora anche al pianoforte. E anche la sua tecnica vocale – giocata sul contrasto tra i toni alti e quelli più profondi, resi rochi dal vizio del fumo che cominciò a nove anni subito dopo il periodo in ospedale per la poliomelite – era di grande presa emotiva sull’ascoltatore.
All’inizio degli anni settanta, acquisita la consapevolezza della sua statura di compositrice, la Mitchell raggiunse il suo vertice artistico. Il primo dei suoi classici è “Blue” del 1971. Il tema conduttore è lo stesso di “Ladies of The Canyon”: il malessere che serpeggia nella vita quotidiana, ma con toni meno pittoreschi, solari e ironici. In compenso, si accentua l’analisi di vicende personali che la portano anche a dure ammissioni di colpa. Come in “River”, dove ricorda la vicenda della bimba avuta da ragazza e data in adozione per le ristrettezze economiche, o nell’amore che non c’è più di “Last Time I Saw Richard”. Il personale diventa quindi preponderante nella sua creazione artistica. Il suo diventa un folk sempre più decisamente confessionale. La musica come luogo dove riversare i nodi più dolorosi del suo vissuto e della sua anima. E dove cercare in qualche modo di esorcizzarli, non potendoli risolvere. Già, perché la felicità intesa come pace dell’animo, sgombro da tormenti, è e rimane un’utopia nell’ottica romantica della Mitchell. L’impossibilità di raggiungere questa felicità genera una malinconia di fondo, da cui non si può prescindere. Da qui il titolo dell’album, “Blue” appunto. Nonostante ponga così fortemente l’accento sulle proprie vicende personali non scadrà mai nella retorica e nel ripiegamento su se stessa. Anzi si fa portavoce di un sentire universale. Nel brano “A case of you” la Mitchell sembra affermare che l’infelicità è dettata non solo dalla condizione individuale ma anche dagli ostacoli frapposti dalle persone che si incontrano nel proprio cammino… A proposito del suo album successivo “For The Roses” (1972) il New York Times scrisse: “Forse non ci può aiutare, ma Joni Mitchell ci fa sentire meno soli”. Questo a riprova della sua profonda sensibilità artistica e del suo saper interpretare ed esprimere un sentire comune. Nel 1973 viene pubblicato l’altro suo capolavoro “Court And Spark” nonché il suo album di più grande successo commerciale. L’impronta jazz del sound dimostrava già quella futura tendenza alla sperimentazione. Ascoltando le canzoni di questo album sembra che l’energia, che in “Blue” diventava un distillato di dolore causato da quei luoghi e quelle persone che recavano infelicità, si sia trasformata in desiderio e sforzo alla ricerca della felicità. Una sorta di sfida con se stessa.”Help me” è sicuramente il brano più rappresentativo della disperazione e la determinazione con cui conduce questa ricerca. Ma l’album contiene anche altri due hit single: “Raised On Robbery” e “Free Man In Paris”. Joni Mitchell si conferma la più “aristocratica” tra le cantautrici, non solo nell’atteggiamento (sempre impeccabile), ma anche nella ricerca musicale, volta a superare le barriere del folk per approdare nei territori del jazz d’avanguardia. Nel 1975 in “Hissing of Summer Lawns” l’artista si allontanò dal suo folk confessionale e dalle tematiche personali per un’analisi sociale dell’epoca. Molti critici storsero il naso, così come molti fan vennero spiazzati. Di sicuro, il sound jazz di “Court and Spark” già aveva fatto presagire quel bisogno di novità. E comunque i suoi lavori precedenti, seppur partendo da spunti autobiografici, diventavano esperienze universali. Ora avveniva il percorso inverso: partire dalla realtà sociale degli Stati Uniti, dalle questioni razziali a quelle politiche, per pervenire a personali opinioni. I suoi lavori successivi furono sempre meno confessionali e intimisti e sempre più sperimentali. Nel 2002, Joni Mitchell è tornata alla ribalta delle cronache musicali per una sua affermazione che ha fatto scalpore solo tra chi fa finta di ignorare ancora le regole dell’industria discografica: “Mi vergogno di far parte del music business, è una fogna – ha dichiarato alla rivista americana Rolling Stone -. Ed è per questo che ho deciso di ritirarmi”. Di recente la quintessenza della scuola cantautorale femminile americana (così fu definita dagli addetti ai lavori) ha fatto nuovamente sentire la sua voce. In un’intervista a La Repubblica ha affermato di essere stata più originale ed incisiva di Bob Dylan sulla scena folk ma di non aver mai ricevuto adeguato riconoscimento in quanto donna.. Quella che emerge dall’intervista è un’artista schiva, lontana dallo star system e dal mondo delle etichette discografiche verso il quale continua ad avere brutte parole. Una donna ora interamente dedita al restauro della sua produzione artistica. Ha selezionato 53 delle sue vecchie canzoni per un cofanetto di quattro cd appena pubblicato “Love has many faces”. “Era tempo d’incominciare a riflettere sul passato”, spiega. “Non ho più alcun desiderio di fare musica, solo di restaurare quelle incisioni deteriorate per incuria. Ormai il consumo della musica è frammentario e occasionale. La gente ascolta dall’iPhone, che è un po’ come guardare Lawrence d’Arabia sul cellulare. Volevo fosse un oggetto bello da avere tra le mani, come i microsolchi di una volta. Volevo ricreare la magia di quando usciva l’Lp che tanto aspettavi, dimostrare a questa generazione di quanto quella cerimonia fosse intima e suggestiva”. Dalle sue parole rituali d’altri tempi per una sensibilità d’altri tempi. Un’artista e una donna, da conoscere e da amare.
Sara Fabrizi

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