Spesso entrare in contatto con la cultura è storia di porte, serrature e entrate sul retro. Ancor prima è il racconto di guardiani testardi e sognatori scanzonati. Anni fa, quando mi capitò nelle orecchie Time Out di Dave Brubeck, che è il disco che mi ha portato dentro il jazz, la faccenda della musica improvvisata mi sembrò entusiasmante e vasta come solo un grande amore può essere. Allora ascoltai di tutto e anche Monk. Ma non era il momento giusto. E tutto quel ticchettio rognoso, quei passi claudicanti e incerti, quelle stonature orgogliose, infine soprattutto quell’insicurezza, direi, mi parvero solo capaci di poter amplificare le mie stonature, la mia insicurezza, e tutta una serie di difetti tipicamente adolescenziali. Anni dopo, per sbaglio, mi capitò di ascoltare Blue Monk, che per i neofiti apparirà come nulla più di un semplice blues, suonato pure male. Un brano che è invece ossessivo, pieno di mistero, occulto.
La mia ultima passione musicale in ordine di tempo, si addipana attorno al fil rouge di un aggettivo fondamentale per capire Monk: misterioso. Un fascino occulto, legato a un mistero celato dietro la musica. Il sogno di Monk, come si chiama peraltro uno dei suoi album più fortunati, è scrivere una musica onirica con cui accompagnare cerimonie pagane.
Il personaggio, e con lui le sue note, sembrano e sono schizofrenici (la rete è piena di aneddoti entusiasmanti su questo santone pazzo del jazz). Quel disagio non poteva che stordire un adolescente fermo ad American Idiot, il cui mondo piano, tra le pendici del liceo e le soglie dell’età adulta, poco aveva a che fare con il racconto di una musica che parla – meglio di come farebbe qualsiasi trattato – di cosa voglia dire vivere in questi tempi incerti, in cui il tempo appunto, come lo spazio, si frantumano sotto di noi (e dentro le nostre orecchie), condannati all’instabilità perenne, come funamboli sospesi su un baratro spaventoso. Monk è la voce della modernità, dell’umanità esasperata. E le sue note non sono solo scure, almeno non quando si trasformano in risposte divertite, ironiche e sovversive all’oppressione dei tempi moderni. Quella musica grida a tutti noi, ci interroga, ci vaglia, e mentre ci chiediamo l’origine di tanta stranezza (perché la musica di Monk è strana, al primo come al millesimo ascolto) siamo già tuffati nei nostri meandri, a scandagliare i nostri luoghi più profondi, dove tra i coralli nuotano pesci mostruosi di cui ignoriamo l’esistenza.
Ultimamente me la prendo, senza parvenza di serietà, con la musica da polli da batteria che da sempre viene prodotta nel mondo. Lo faccio perché la ritengo insincera, come un libro che viene scritto al solo scopo di farti piangere, e tu lo leggi, piangi, gridi al capolavoro, e rivendichi il tuo diritto (sacrosanto, attenzione) di leggere letteratura disonesta. Lo faccio perché ho a cuore la bellezza (grande o piccola che sia). Ho semplicemente deciso che se non vi spiego per bene perché determinate cose sono meritevoli di attenzione ( e di grandi pubblici o almeno più vasti) continuerò a passare per lo scemo del villaggio, personaggio ai cui argomenti spesso si presta poca o nessuna attenzione. La buona musica, così come tante altre cose gradevoli, è tutto fuorché un pippone sull’importanza della cultura, per cui, invece di lambiccarci, tutti a difendere il nostro comodo e meraviglioso angolo di mondo, sempre uguale a se stesso, cerchiamo di abbandonarci alla contaminazione. Per capire, come è nelle intenzioni e nel titolo di questa rubrica, che il nostro mondo e il mondo degli altri si compenetrano lungo una serie infinita di cavi intrecciati. Su questa rete meravigliosa, che al piano terra dell’edificio della cultura umana permette il miracolo della comunicazione, sarebbe bello pattinare per cercare di giungere ai piani superiori, scoprendo che non siamo poi così diversi, e che la condivisione preesiste a Facebook. Una condivisione necessaria, doverosa, senza la quale il pavimento rischia di crollare sotto il peso insostenibile del disinteresse collettivo.
Le coincidenze sono incredibili. Il brano che allego fa parte di un album che Monk registrò da solo a San Francisco in due giorni (il 21 e il 22 ottobre 1959), alla Fugazi Hall (coincidenze vuol dire che nel prossimo articolo racconterò la storia di come ho conosciuto la musica dei Fugazi). Quei due giorni saltarono fuori a causa di un’operazione che l’amata moglie di Theloious, Nellie, dovette sostenere in un vicino ospedale. Un album meraviglioso, in cui la solitudine, il misticismo, il fascino di Monk, emergono naturalmente.
Buon ascolto e buona vita,
lecosecheabbiamoincomune