Santa Claus is Coming to town three times

Il jazz è sempre una storia dell’ossessione per la libertà. Jazz è sempre dalla parte di chi è contro tutti, jazz è una parola sempre sporca, sempre bastarda ed è questa la sua magia. È dalla sofferenza, dall’essere una stradina senza alternative e quindi con infinite alternative che il jazz trae la sua magia.

Di questo lato oscuro, genetico, lunare del jazz discutevo giorni fa col mio amico M. che qui non cito ma che ringrazio per tutti gli spunti interessanti che vengono dalle nostre chiacchierate musicali. Si parlava nello specifico di Micheal Bublé, che arriva ogni Natale come esempio didattico di swing ed è da lì che comincia la mia necessità di scrivere questo articolo.

Natale, Bublé, capitalismo sfrenato: un’equazione che, trasportata nel campo di cosa è o non è jazz, rischierebbe di risolversi nell’esposizione di un comodino Ikea in un salotto Luigi XIV.
Natale e jazz è un binomio che merita ben altra considerazione ed è per questo che ho deciso di spargere di seguito una serie di brani che per me rappresentano il jazz: dunque chi li ha suonati: infine il Natale.

Partiamo con questa versione di Santa Claus is Coming to Town di Bill Evans: qualcosa da cui si potrebbe iniziare a spiegare il jazz alle scolaresche. Un brano teoricamente felice, gioioso, immediato: un tema allegrotto da fischiettare sotto la doccia. Quando tutto questo passa attraverso la maglia del tormento, della natura così timidamente clumsy dell’occhialuto Bill Evans, il pezzo si trasforma in una serie di fioriture imprevedibile, di salti, di problemi musicali da risolvere, che ci trasportano, attraverso un brano forse scontato, dentro il mondo emotivo di Bill Evans, lo stesso di cose come Waltz for Debbie. Sì, lo sto pensando: che bello il jazz.

Esatto, è lo stesso brano. Ma cambia praticamente tutto, titolo a parte.
Tiro fuori quest’album a Natali alterni e ve lo consiglio se volete fare colpo su qualcuno. Lo stesso brano che avete ascoltato sopra, ingioiellato come il decolté di un’ereditiera who’s puttin’ on the Ritz, dal talento puro e sfavillante di Ella Fitzgerald. Un fiume in piena di bravura senza freno, che parla di un Natale che almeno tutti abbiamo sognato una volta nella vita, un Natale che assomiglia un po’ al Capodanno e se il Capodanno è quello di cinquant’anni fa, amen.

Dite Ciao al Vibrafono. Qui ascoltiamo Oscar Peterson, un jazz pieno di swing e con centinaia di code catchy e accenti blues: una lunga serie di ammiccamenti che stenderebbero al tappeto anche il più freddo nemico del Natale. Da far ascoltare a quell’amico che odia sia il jazz (perché crede che il jazz sia Micheal Bublé oppure solo lo swing, oppure Kenny G, oppure la roba che si sente negli ascensori, ma il quel caso non c’è altra cura di un ascolto alternato di A kind of Blue e Time Out) sia il Natale. Ascoltare un brano ed essere seduto in un night di Chicago una sera tra Natale e Capodanno, in un tempo imprecisato del passato, bloccati dalla tormenta ma felici.

Perché il Natale è prima di tutto uno stato d’animo.
Buon Natale e sempre viva il jazz, per tutto quello che questa parola sarà mai capace di rappresentare.

 

 

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Collettivo Phthorà: Chi? Come? Quando? Perché?

Conosco il Collettivo Phthorà da un bel po’. Precisamente da quando non era ancora un collettivo e durante una jam session a casa di Luciano Cocco, si parlava di formare un gruppo di sperimentatori professionisti. I musicisti che ne fanno parte, Luciano appunto, Filippo, Francesco e Ivan, sono quanto di più interessante stia accadendo in questo periodo nella scena musicale di Frosinone.
Si dà il caso che i suddetti siano peraltro amici del sottoscritto, il che non vorrei inficiasse il peso delle mie parole, dato che la nostra amicizia non è che una delle conseguenze di un’affinità musicale e spirituale. Per questo ho deciso di raccontarvi in questo articolo un paio di cose, ovvero come è capitato di conoscerci e perché mercoledì 8 giugno, al Lebò Club di Frosinone, succederà qualcosa di molto importante (segnatevi questa data sull’agenda).
Cercherò di essere scherzosamente didascalico.
Quando ho conosciuto gli attuali membri del Collettivo Phthorà, questi non erano che un gruppo di prodotti umani del Conservatorio di Frosinone, in giro per la provincia, studenti appassionati di jazz, musicisti impegnati a diffondere la propria arte. Ho ascoltato la prima volta Ivan (Liuzzo), senza che ci conoscessimo, mentre suonava in un trio formato da batteria, basso elettrico e vibrafono (forse c’era anche un sax, forse quel sax era Danilo Raponi), e mi colpì soprattutto per una meravigliosa versione di “Naima”.
Luciano (Cocco) e Filippo (Ferrazzoli) invece, risalgono, nella mia memoria, a un momento di molto precedente, quando suonavano nei Coemme2 con Matteo Panetta. Devo al primo, per ragioni che non sto qui a spiegare, il mio ingresso in questa scena meravigliosa di giovani e folli jazzisti del frusinate, che idealmente mi ha portato fino alla scrittura di questo papello.
Francesco Abbate, invece, l’ho conosciuto per ultimo, una sera alla Cantina Mediterraneo. Di lui mi colpirono due cose: un silenzio misterioso e una giacca maestosa.
Questi quattro ragazzi hanno messo su qualcosa di veramente interessante dando vita al famigerato Collettivo Phthorà. Parlare solo di jazz sarebbe eccessivamente riduttivo, si tratta invece di un gruppo di musicisti dedicati alla contaminazione più completa, impegnati a sperimentare, a coinvolgere, a promuovere l’espressione.
L’invenzione più riuscita del Collettivo è stata quella di costruire un appuntamento fisso nel cuore di Frosinone, dove, ogni mercoledì, da alcuni mesi a questa parte, è stato possibile ascoltare, grazie a loro, un catalogo variegato di artisti e proposte, tale da farmi rimpiangere una mia pur breve permanenza nella Capitale. Al Lebò Club, che ormai è diventato uno dei centri nevralgici del discorso musicale della provincia, ho avuto così la fortuna di ascoltarli insieme al talentuoso rapper ADV (sul palco insieme all’altrettanto valido Mind), oppure impegnati con il batterista Stefano Costanzo, o ancora con Wound (googlate il tutto e capirete perché la parola jazz è riduttiva).
Mercoledì scorso, dopo averli lasciati per un po’, li ho ritrovati ad eseguire tre composizioni, in solo (in ordine: Filippo, Francesco e Ivan). È stato proprio chiacchierando con Ivan, dopo il concerto, che ho riacquistato la voglia di parlare della mia passione per la musica improvvisata e parte della colpa di questo fiume di parole è anche sua.
Veniamo ora al secondo punto. Il secondo punto è che mercoledì prossimo, 8 giugno, si chiude la stagione degli appuntamenti settimanali al Lebò, e non con un evento qualsiasi.
Il Collettivo, in formazione larghissima (insieme a Stefano Costanzo e Ron Grieco), suonerà insieme a Lisa Mezzacappa, jazzista americana (di San Francisco), tra le figure di spicco della scena contemporanea americana. Non so come abbiano fatto ma sono felice con loro di questo risultato, avendoli seguiti fin dagli esordi di questa tortuosa ricerca.
Ho scritto tutto l’articolo per dire una ed una sola cosa: questo evento è imperdibile. E detto da un cinico, diffidente, scettico come me è tutto dire. A Frosinone, al Lebò, sta per succedere qualcosa di storico. E non dobbiamo perdercelo per nessuna ragione al mondo.

Per maggiori informazioni: https://www.facebook.com/events/1091963170849991/

P. S. : Sarà presente anche l’autore dell’articolo, opportunamente munito di prevendita.

Il concerto di Calcutta a Frosinone – una recensione molto molto personale

Premessa

Mi piace la musica di Calcutta. Credo anzi che ci sia un punto irriducibile contro cui è destinata ad infrangersi qualsiasi nuova teoria sulla musica di questo ragazzo di Latina: i pezzi funzionano e lo fanno benissimo, in particolare quei due tre che ti incollano magicamente al destino suo (di Calcutta) e forse, chissà, anche di quello della città di Latina.

Svolgimento

Entro nell’Affekt Club munito di prevendita intorno alle ore 22 di ieri sera. Davanti a me si para un’umanità variegata. La tentazione sarebbe quella di soffermarmi sul gabberino in tuta acrilica che ha colpito la mia attenzione sin dai primi minuti, o magari su alcuni amici molto simpatici che ho incontrato durante la serata e con i quali ho avuto talvolta delle esilaranti conversazioni a partire da spunti del tutto inventati. Lo farei pure, se non fosse che il 90% dei partecipanti al concerto sembra essere composto in parti uguali da hipster quindicenni e altri hipster quindicenni ancora più hipster dei primi.
La cosa mi sorprende a tal punto che, accasciato al suolo, mi sento, improvvisamente, vecchio.
Superati i postumi di questa sempiterna scoperta umana, mi dirigo a pochi passi dal palco, facendomi largo tra pastrani e monocoli camuffa acne. È lì infatti ad aver avuto inizio un dj set che richiederebbe una recensione a parte. Un dj set destinato a imprimersi indelebile nella mia attenzione di osservatore che, proprio durante quei fatidici momenti, inizia a partorire l’idea che è poi alla base di questo articolo.
Il deejay è Gaetano, lo stesso Gaetano del titolo della canzone del cantautore pontino che di lì a poco si esibirà sul palco (se non l’avete capito, il mio gioco sarà proprio quello di mantenere questo lessico freddissimo tra il poliziottesco e il guardingo, con un sano scetticismo di matrice alleniana, che dovrebbe risultare insidiosamente fastidioso, almeno secondo le mie intenzioni).
Il signor Gaetano è vestito in maniera molto appariscente. La musica che mette è un meraviglioso panegirico degli anni ‘80, sospeso tra pezzoni clamorosi di musica disco (del decennio precedente), Daft Punk (Lose yourself to dance, come se non ci fosse un domani) e bordate syntharole che evocano all’indietro Com Truise e, en avant, un certo gusto kitsch con coloriture vapor.
Mi diverto come un matto, spesso da solo, a saltellare quei ritmi gioiosamente vecchi perché fondamentalmente sono anch’io un subdolo sostenitore dell’edonismo anni ’80, tutto Craxi e Prima Repubblica. Noto un certo fervore nel 90% hipster presente in sala (cambio del monocolo, ora sull’occhio destro), che ha visto gli anni ’80 – per non parlare dei ’90 dove ho iniziato timidamente a compiere i primi passi della mia esistenza – solo in una meravigliosa cartolina spedita dalla Cortina del 1987. È proprio a suon di “Buon 1987” che, scambiate quattro chiacchiere con il mio amico Carlo (cantante degli At The Weekends e grande estimatore delle scempiaggini più turpi del decennio reaganiano in salsa italica), mi accingo all’ascolto dei brani di Calcutta, che, in men che non si dica, irrompe nella sala con una terribile camicia a righe e infila due o tre pezzi chiave per capire questo interessantissimo cantautore (che, ripeto, ha suonato ieri a Frosinone).
Sarebbe inutile, financo pernicioso, imbeccare di sviolinate e buoni propositi per il futuro questo bravo ragazzo*, ma non ci si può esimere dal dire, in questa e in altre sedi, che il suo seguito, esploso così, dans l’éspace d’un matin, non può venir liquidato come una semplice moda per Millenials bimbiminkia (credevate proprio che l’avrei detto, eh? E invece non l’ho fatto, perché non lo penso neanche minimamente).
In nuce si tratta di un’artista che sa fare le sue canzoni. Sono oggetti liberi di camminare da soli, se non di correre. E non è poco, è tutto. Soprattutto se sei un cantautore alla primissima esperienza (e la cosa si vede ed è bellissima). Queste canzoni potremmo rischiare di ricordarle un giorno. Ed è per questo che io, da infimo osservatore, quale sono, non ho potuto esimermi (verbo che torna e ritorna in questo mio pezzo) dal dire che questa cosa è passata da qui, da Frosinone, dalla città che dà il titolo a uno dei suoi pezzi più azzeccati.
Se son rose fioriranno, intanto stasera quelle rose eventuali sono passate in Ciociaria ed io c’ero. E tanti altri insieme a me. Ed è stato divertente, credo non solo per me. Per cui ho sentito l’esigenza, già durante il dj set in apertura come vi dicevo, di farvi questa inutile recensione del concerto dove in realtà non vi dico niente del concerto ma vi abbandono alle mie puntuali, infide, personalissime considerazioni sconclusionate, facendovici sguazzare come studentelli alla ricerca di un perché.
In sala cantavano tutti, anche io che quei pezzi li avrò visti tre volte su Youtube (solo perché mia madre mi diceva di non andare su altri siti). E io sono un caso umano della memoria, sia a breve che a lungo termine. Per cui fidatevi, se le ricordo io, vuol dire che un giorno le ricorderete anche voi. E allora verrete a chiedermi perché e inizieranno lunghi dibattiti e io vi risponderò, come ora faccio, che sì, si possono pure imputare a Calcutta le due guerre mondiali e il buco dell’ozono ma resta un fatto innegabile: questo ragazzo sa fare una cosa sola. Sa fare canzoni. Sono oggetti indovinatissimi. Ci possono non piacere, ma continuano a funzionare.
Ecco perché anche adesso ve lo giuro che torno a casa e mi guardo un film, “L’Ultimo dei Moicani”, non so di chi.
Questa frase e un centinaio di migliaia di riff che ho ascoltato stasera si sono infilati irrimediabilmente nella mia corteccia celebrale. E io, uno che sa fare una cosa del genere, se suona a Frosinone, se ha scritto pure una canzone su Frosinone e che parla del Frosinone in Serie A, io, ragazzo della periferia del mondo, LO VADO A VEDERE.
L’ho visto, ieri, e ascoltato, all’Affekt, per cinque euri.
A Frosinone.
E ho intenzione di ricordarvelo a lungo.

*Nel corso della serata ascolto e talvolta dico una quantità abominevole di giudizi lapidari e tranchant tra i quali spiccano su tutti:
1) “Tra trent’anni sarà quel fenomeno di costume che tutti oggi conosciamo con il nome di Vasco Rossi” (vietato leggere sfumature canzonatorie);
2) è come se Mac DeMarco fosse nato a Sezze;
3) Mi ricorda Antonello Venditti.

Tutte le strade portano a Miles

Ci ho provato. Mi sono allontanato dalla musica improvvisata nel tentativo di parlare d’altro: è stato così e non escludo lo sia anche in futuro. Ma il jazz è proprio la musica contro cui vado a sbattere continuamente, per tutta una serie di ragioni molto divertenti.
Per questo ho deciso di raccontarvi da dove viene questa mia strana passione. Tutto è cominciato con un disco abbastanza famoso che mi capitò fra le mani dopo mesi di ascolto compulsivo di American Idiot dei Green Day. Nel 2005 c’era ancora MTV e questo passava il convento se non volevi suicidarti prematuramente dopo aver guardato il video di The Reason degli Hoobastank. American Idiot lo consumai, arrivando a solfeggiare perfettamente Jesus of Suburbia. Si tratta di un album che ho amato, di un amore acerbo e adolescenziale. Poi però si insinuò in me quella curiosità per le cose complicate (e spesso inutilmente tali) che mi avrebbe accompagnato più o meno continuativamente per alcuni anni. Credo di essere passato al jazz anche perché in quel periodo mi era capitato di ascoltare roba prog italiana (Storia di un Minuto della Pfm, Crac! degli Area, per esempio), fatto sta che un giorno, nel mio stereo, mentre fuori dalla finestra impazzava la guerra in Iraq e Million Dollar Baby era il film dell’anno, andò a finire il celeberrimo Time Out del Dave Brubeck Quartet.
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I Big Star, le limonate e i chitarristi da falò

C’è una musica per ogni stagione della vita: è forse questo l’unico eterno ritornello valido per tutti gli amanti della musica, scintillante o scadente che sia. Poi ognuno applica i propri metodi, una canzone può essere un amore folgorante e durare lo spazio di un mattino. Altre sonorità sembrano invece predestinate a lasciare un imprinting profondo. Si riproporranno periodicamente (soprattutto nei dibattiti durante le feste comandate) nelle nostre crociate donchisciottesche a favore della bellezza, costellando i nostri pensieri di brandelli di melodie riemerse. Vengono, infine, le adesioni cieche: quegli album, quelle band, quegli artisti che ti segnano per sempre. Sono gli avamposti dai quali non ti sposterai più neanche di un centimetro. Entrano a far parte di te fino a definrti. Quando ti capita di parlarne il tuo modi si illuminano come luci di posizione e nei tuoi occhi brilla l’utopia di ogni integralista.
Fra gli album che fanno sognare imponenti megafoni di orwelliana memoria, caricati a salve, con la musica che stende, metto da alcune settimane #1 Record dei Big Star. Continua a leggere I Big Star, le limonate e i chitarristi da falò

Io, i Fugazi e le corse spezzate

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Da un buon divulgatore ci si aspetta che conosca molto bene la materia in cui vuole introdurci. Con obiettivi decisamente più terreni, ho dato vita a una rubrica dove ho invece scelto di raccontarvi il mio rapporto con la musica, a partire dalla mia specifica, ombelicale e forse inutile esperienza personale. Per questo dopo Monk, viene il turno dei Fugazi. Personalmente, per ascolti più che per attitudine, io sto all’hardcore (anzi, post-hardcore come dice Wikipedia) come Stravinskij al downtempo. Ma tant’è. Se il jazz è la musica della libertà, il punk, in tutte le sue derivazioni, è un inno all’energia, cantato rabbiosamente.
Tutto comincia per colpa della corsa. È da qualche anno che, più o meno vestito, a seconda della stagione, esco di casa e inizio a correre come fanno tanti eredi inconsapevoli di Forrest Gump. Continua a leggere Io, i Fugazi e le corse spezzate

lecosecheabbiamoincomune #1 Monk personale: una storia di porte

Spesso entrare in contatto con la cultura è storia di porte, serrature e entrate sul retro. Ancor prima è il racconto di guardiani testardi e sognatori scanzonati. Anni fa, quando mi capitò nelle orecchie Time Out di Dave Brubeck, che è il disco che mi ha portato dentro il jazz, la faccenda della musica improvvisata mi sembrò entusiasmante e vasta come solo un grande amore può essere. Allora ascoltai di tutto e anche Monk. Continua a leggere lecosecheabbiamoincomune #1 Monk personale: una storia di porte