I Big Star, le limonate e i chitarristi da falò

C’è una musica per ogni stagione della vita: è forse questo l’unico eterno ritornello valido per tutti gli amanti della musica, scintillante o scadente che sia. Poi ognuno applica i propri metodi, una canzone può essere un amore folgorante e durare lo spazio di un mattino. Altre sonorità sembrano invece predestinate a lasciare un imprinting profondo. Si riproporranno periodicamente (soprattutto nei dibattiti durante le feste comandate) nelle nostre crociate donchisciottesche a favore della bellezza, costellando i nostri pensieri di brandelli di melodie riemerse. Vengono, infine, le adesioni cieche: quegli album, quelle band, quegli artisti che ti segnano per sempre. Sono gli avamposti dai quali non ti sposterai più neanche di un centimetro. Entrano a far parte di te fino a definrti. Quando ti capita di parlarne il tuo modi si illuminano come luci di posizione e nei tuoi occhi brilla l’utopia di ogni integralista.
Fra gli album che fanno sognare imponenti megafoni di orwelliana memoria, caricati a salve, con la musica che stende, metto da alcune settimane #1 Record dei Big Star.

Conta poco il viaggio che mi ha portato fin qui. Sarà bello invece interrogarsi su cosa ci sia di così brillante in queste note dall’aver provocato in me una vera e propria epifania. Per capirlo è imprescindibile il mio amore viscerale per le armonie non solo beatlesiane di un certo rock tra i sessanta e i settanta, cui si aggiunge, colpevole, un amore giovanile per i Queen (tante volte rinnegato), che spesso tornano alla ribalta nelle tante consonanze che mi capita di leggere lungo il cammino degli ascolti.
Eppure la musica suonata qui dentro è di una semplicità stucchevole, o almeno è questo che grida il me critico musicale, al me innamorato di certe musichette da vaudeville (ultimamente Honey Pie dei Beatles N.d.R.), sentimentale, lacrimoso e pieno di buoni sentimenti. I due però, oltre allo stesso corpo, hanno in comune un gusto maniacale per le cose ben fatte. Il critico grida alla genericità del giudizio espresso: lo accontentiamo. Diciamo che #1 Record è un disco onesto. Ci sono dentro pochi concetti, comunicati senza fronzoli (salvo qualche scelta discutibile a livello strumentale, anche se un giorno inventeranno una funzione di Windows Media Player che lavi via la patina degli anni e le cose sbadate che si combinano nei dischi e di cui poi, un giorno, ci si pente). Infine, anche se sembra paradossale dirlo nel 2015, dopo che abbiamo trovato l’acqua pure su Marte, questa musica è registrata bene: si sentono tutti e le sbavature scendono a una cifra vicina allo zero. Non c’è niente fuori posto (a parte India Song, per la quale bisognerebbe utilizzare un metodo di prevenzione ispirato a Minority Report). Chitarre che schioccano, tocchi di flanger ben assestati, armonie vocali gradevoli. Un paio di chitarrine che ammiccano, inizia il primo brano (Feel) e vieni trasportato d’ufficio nel 1972 (anno di nascita dell’album N.d.R). Parliamo però di una musica che, se da un lato riassume tante trovate del decennio precedente (Beatles ma anche Byrds) è anticipatrice di un certo college rock e fa di questa perla di dimensioni ridotte qualcosa di seminale per un certo tipo di rock.
In the street, in questo senso, è un vero e proprio manuale di scrittura, abitato da tanta della musica che sarebbe venuta. Ci troverete dentro tanti degli schemi di quattro accordi che hanno fatto la fortuna di molte band (mi vengono in mente i R.E.M.), e un mucchio di arpeggi malinconici e paraculi che hanno fatto piangere, trasportati in tantissime altre canzoni, tutti i chitarristi che, seduti attorno al fuoco, hanno accompagnato il limonare collettivo tipico delle notti di Ferragosto. Mentre tutti limonavano allegri, un ventennio di professionisti del power chord, tristi e abbandonati da Dio, ha suonato, per vent’anni, una canzone il cui prototipo è il ritornello di Feel.

#1 Record è in macchina da una settimana.
E chi se lo scrolla più di dosso.

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