“Certe volte fa bene anche ascoltare qualcosa che non ci piace”, “Magari è meglio di quanto penso”.
Ho mormorato questo tipo di cose appena seduto al mio posto davanti al palco di Atina Jazz, mentre i due presentatori Gino Castaldo ed Ernesto Assante mi annunciavano che sarebbe di lì a poco iniziato un concerto di canzone napoletana con contorno d’archi. C’è da premettere che non conoscevo Peppe Servillo, ma siccome il collega Emilio me ne aveva dato un accenno positivo e la serata era propizia, ho colto l’occasione per fare la sua conoscenza. Non sapevo quindi che il contenuto della serata sarebbe stato tutto napoletano.
Fatto sta che al mio posto c’ero e tanto valeva stare ad ascoltare. I presentatori hanno fatto il loro lavoro insalsando il concerto come un “per non dimenticare” eseguito con “carne e sangue”. Che di per sé mi è sembrato convincente. Peccato che i brani che sono stati suonati non se li era dimenticati proprio nessuno, tant’è che si è sfiorato più volte il coro collettivo; e di carne e sangue ce n’erano tanto meno, se è da intendere come qualcosa di molto sentito e commovente.
Eccezion fatta per un 5 minuti di soli(s) di archi (peraltro impostatissimi) il concerto è passato senza lasciare niente. I brani sembravano essere suonati tutti nella stessa maniera, con la stessa atmosfera. La volontà di adattare i brani classici napoletani al quartetto d’archi e alla voce in qualche modo jazz di Peppe Servillo è risultata in un appiattimento, una trasposizione unilaterale verso un singolo schema. Senza espressioni, senza emozioni. È chiaro che la leva aveva il suo fulcro nei testi, e nel loro radicamento nelle menti degli ascoltatori, lasciando collaterale una impostazione musicale tutto sommato inconsueta. Qualche breve momento da cabaret, immancabile napoletanità, ha fatto da ciliegina ad un concerto di cui si poteva fare a meno.
Però la signora sulla settantina seduta poco distante da me sembrava apprezzare.