Khan – Ecstasy (2016)

Oggi butto giù due righe su un gruppo appena trovato su Bandcamp. Come al solito si tratta di una minirecensione al primo ascolto.

Chi sono i Khan? Si tratta di un gruppo di Melbourne, Josh Bills – cantante/chitarra, Mitchell Kerr – basso/seconda voce e Beau Heffernan – batteria. L’album in questione, Ecstasy, si compone di 6 tracce ed è uscito in concomitanza con Enstasy, sempre di 6 tracce.

Partiamo dunque con i brani. Continua a leggere Khan – Ecstasy (2016)

Nuclear Blast Showdown Spring 2016

frontCome ho fatto anche con il campionario Relapse nel 2015, voglio fare una track-by-track del campionario primaverile dell’etichetta dedicata al metal Nuclear Blast. L’etichetta di origine tedesca non ha di certo bisogno di presentazioni essendo su album di Slayer, Children Of Bodom e Nightwish.
Ma iniziamo questa breve rassegna del loro campionario più recente: Continua a leggere Nuclear Blast Showdown Spring 2016

The Dead Weather – Sea Of Cowards (2010)

Eccomi con un altro disco al primo ascolto; parliamo dei “The Dead Weather”, mai sentiti nominare da me fino a questo momento, ma con componenti di tutto rispetto: la band è composta dalla cantante Alison Mosshart (The Kills), dal bassista Jack Lawrence (Raconteurs,The Greenhornes, City and Colour), dal chitarrista Dean Fertita (Queens of the Stone Age) e dal cantante/chitarrista/batterista Jack White (White Stripes, The Racounters) – wikipedia.

Insomma non si tratta di completi sconosciuti nel mondo della musica, mentre io lo sono e mi appresto a buttare giù due righe mentre scorre questo album del 2010.

Blue Blood Blues è un blues molto particolare, con continui rimandi a sonorità stile Rage Against The Machine riscontrabili nel modo di cantare particolare di Jack White. Si prosegue con Hustle And Cuss, funky dark e con un inizio che mi rimanda nuovamente ai RATM; ammetto che mi sono lasciato trascinare dal ritmo e ho iniziato a muovere il piede per tutto il tempo. Continua a leggere The Dead Weather – Sea Of Cowards (2010)

Jack Thunder Band – What The Thunder Said

Jack-Thunder-Band-What-The-Thunder-Said-2-150x150Metti quattro ragazzi che nella provincia al confine fra Lombardia e Piemonte, nel 2015, decidono di trasportarci in centro America. E lo fanno scrivendo, suonando ed autoproducendo un album dal titolo eloquente, What The Thunder Said. Più che un viaggio, una vera e propria telecinesi che annulla in un attimo le distanze spaziali ma anche quelle temporali. Non solo veniamo catapultati fra montagne rocciose e mitici rivers, ci ritroviamo anche in una dimensione quasi a-temporale. Echi decisi di anni ’70 o di decenni ed epoche ancora precedenti, comunque di tempi in cui l’aspetto geografico e morfologico degli States è divenuto prepotente metafora della condizione e della psicologia umana. E la musica d’oltreoceano, dalla tradizione popolare americana fino al cantautorato recente, ha sempre indagato e cantato i legami fra natura ed uomo. Insolito e soprendente che sia una band italiana di recente formazione a cimentarsi in un questo ambito. Forse a testimonianza che alcuni miti e universi di significati trascendono davvero le barriere spazio-temporali. E forse proprio il legame con il territorio, l’osservare la natura selvaggia delle valli del Piemonte orientale e del fiume Ticino avrà condotto i quattro musicisti sulle sponde del Colorado River. E li avrà invogliati a scrivere e cantare storie che ruotano attorno al tema del river e della sua simbologia. Quasi come fossimo dentro un fumetto di Tex Willer. E proprio da uno dei personaggi apparsi in Tex la band mutua il suo nome: Jack Thunder Band. Continua a leggere Jack Thunder Band – What The Thunder Said

Il concerto di Calcutta a Frosinone – una recensione molto molto personale

Premessa

Mi piace la musica di Calcutta. Credo anzi che ci sia un punto irriducibile contro cui è destinata ad infrangersi qualsiasi nuova teoria sulla musica di questo ragazzo di Latina: i pezzi funzionano e lo fanno benissimo, in particolare quei due tre che ti incollano magicamente al destino suo (di Calcutta) e forse, chissà, anche di quello della città di Latina.

Svolgimento

Entro nell’Affekt Club munito di prevendita intorno alle ore 22 di ieri sera. Davanti a me si para un’umanità variegata. La tentazione sarebbe quella di soffermarmi sul gabberino in tuta acrilica che ha colpito la mia attenzione sin dai primi minuti, o magari su alcuni amici molto simpatici che ho incontrato durante la serata e con i quali ho avuto talvolta delle esilaranti conversazioni a partire da spunti del tutto inventati. Lo farei pure, se non fosse che il 90% dei partecipanti al concerto sembra essere composto in parti uguali da hipster quindicenni e altri hipster quindicenni ancora più hipster dei primi.
La cosa mi sorprende a tal punto che, accasciato al suolo, mi sento, improvvisamente, vecchio.
Superati i postumi di questa sempiterna scoperta umana, mi dirigo a pochi passi dal palco, facendomi largo tra pastrani e monocoli camuffa acne. È lì infatti ad aver avuto inizio un dj set che richiederebbe una recensione a parte. Un dj set destinato a imprimersi indelebile nella mia attenzione di osservatore che, proprio durante quei fatidici momenti, inizia a partorire l’idea che è poi alla base di questo articolo.
Il deejay è Gaetano, lo stesso Gaetano del titolo della canzone del cantautore pontino che di lì a poco si esibirà sul palco (se non l’avete capito, il mio gioco sarà proprio quello di mantenere questo lessico freddissimo tra il poliziottesco e il guardingo, con un sano scetticismo di matrice alleniana, che dovrebbe risultare insidiosamente fastidioso, almeno secondo le mie intenzioni).
Il signor Gaetano è vestito in maniera molto appariscente. La musica che mette è un meraviglioso panegirico degli anni ‘80, sospeso tra pezzoni clamorosi di musica disco (del decennio precedente), Daft Punk (Lose yourself to dance, come se non ci fosse un domani) e bordate syntharole che evocano all’indietro Com Truise e, en avant, un certo gusto kitsch con coloriture vapor.
Mi diverto come un matto, spesso da solo, a saltellare quei ritmi gioiosamente vecchi perché fondamentalmente sono anch’io un subdolo sostenitore dell’edonismo anni ’80, tutto Craxi e Prima Repubblica. Noto un certo fervore nel 90% hipster presente in sala (cambio del monocolo, ora sull’occhio destro), che ha visto gli anni ’80 – per non parlare dei ’90 dove ho iniziato timidamente a compiere i primi passi della mia esistenza – solo in una meravigliosa cartolina spedita dalla Cortina del 1987. È proprio a suon di “Buon 1987” che, scambiate quattro chiacchiere con il mio amico Carlo (cantante degli At The Weekends e grande estimatore delle scempiaggini più turpi del decennio reaganiano in salsa italica), mi accingo all’ascolto dei brani di Calcutta, che, in men che non si dica, irrompe nella sala con una terribile camicia a righe e infila due o tre pezzi chiave per capire questo interessantissimo cantautore (che, ripeto, ha suonato ieri a Frosinone).
Sarebbe inutile, financo pernicioso, imbeccare di sviolinate e buoni propositi per il futuro questo bravo ragazzo*, ma non ci si può esimere dal dire, in questa e in altre sedi, che il suo seguito, esploso così, dans l’éspace d’un matin, non può venir liquidato come una semplice moda per Millenials bimbiminkia (credevate proprio che l’avrei detto, eh? E invece non l’ho fatto, perché non lo penso neanche minimamente).
In nuce si tratta di un’artista che sa fare le sue canzoni. Sono oggetti liberi di camminare da soli, se non di correre. E non è poco, è tutto. Soprattutto se sei un cantautore alla primissima esperienza (e la cosa si vede ed è bellissima). Queste canzoni potremmo rischiare di ricordarle un giorno. Ed è per questo che io, da infimo osservatore, quale sono, non ho potuto esimermi (verbo che torna e ritorna in questo mio pezzo) dal dire che questa cosa è passata da qui, da Frosinone, dalla città che dà il titolo a uno dei suoi pezzi più azzeccati.
Se son rose fioriranno, intanto stasera quelle rose eventuali sono passate in Ciociaria ed io c’ero. E tanti altri insieme a me. Ed è stato divertente, credo non solo per me. Per cui ho sentito l’esigenza, già durante il dj set in apertura come vi dicevo, di farvi questa inutile recensione del concerto dove in realtà non vi dico niente del concerto ma vi abbandono alle mie puntuali, infide, personalissime considerazioni sconclusionate, facendovici sguazzare come studentelli alla ricerca di un perché.
In sala cantavano tutti, anche io che quei pezzi li avrò visti tre volte su Youtube (solo perché mia madre mi diceva di non andare su altri siti). E io sono un caso umano della memoria, sia a breve che a lungo termine. Per cui fidatevi, se le ricordo io, vuol dire che un giorno le ricorderete anche voi. E allora verrete a chiedermi perché e inizieranno lunghi dibattiti e io vi risponderò, come ora faccio, che sì, si possono pure imputare a Calcutta le due guerre mondiali e il buco dell’ozono ma resta un fatto innegabile: questo ragazzo sa fare una cosa sola. Sa fare canzoni. Sono oggetti indovinatissimi. Ci possono non piacere, ma continuano a funzionare.
Ecco perché anche adesso ve lo giuro che torno a casa e mi guardo un film, “L’Ultimo dei Moicani”, non so di chi.
Questa frase e un centinaio di migliaia di riff che ho ascoltato stasera si sono infilati irrimediabilmente nella mia corteccia celebrale. E io, uno che sa fare una cosa del genere, se suona a Frosinone, se ha scritto pure una canzone su Frosinone e che parla del Frosinone in Serie A, io, ragazzo della periferia del mondo, LO VADO A VEDERE.
L’ho visto, ieri, e ascoltato, all’Affekt, per cinque euri.
A Frosinone.
E ho intenzione di ricordarvelo a lungo.

*Nel corso della serata ascolto e talvolta dico una quantità abominevole di giudizi lapidari e tranchant tra i quali spiccano su tutti:
1) “Tra trent’anni sarà quel fenomeno di costume che tutti oggi conosciamo con il nome di Vasco Rossi” (vietato leggere sfumature canzonatorie);
2) è come se Mac DeMarco fosse nato a Sezze;
3) Mi ricorda Antonello Venditti.

Blood Red Shoes – Blood Red Shoes (2013)

Oggi parliamo di un album dei Blood Red Shoes, duo indie-rock inglese che ancora non ho mai ascoltato. Ho deciso di recensire questo album in particolare avendo ascoltato a caso il brano “Speech Coma”, interessante per me per la presenza della voce femminile e della distorsione presente in più o meno in ogni strumento/coro.

Stiamo parlando di un album composto da 12 tracce non eccessivamente lunghe.

La prima, Welcome Home è strumentale e ci introduce allo spirito dell’album. Chitarra distorta, batteria presente dopo i primi 5 secondi e la consapevolezza che, essendo un duo, quelli sono gli strumenti con i quali avremo a che fare.

Everything All At Once vede l’intervento della voce del batterista, che ci mostra la sua capacità di cantare in falsetto durante il ritornello.

Si prosegue con An Animal, con il riff della chitarra che entra in testa sin da subito ed un ritornello più che orecchiabile; interessante come la sola presenza di batteria e chitarra come strumenti non risenta di vuoti musicali.

Grey Smoke mi ha ricordato molto da vicino gli Sweethead, struttura lineare, voce femminile e frasi ripetute; il collegamento con Far Away è drastico, in quanto quest’ultimo è un pezzo più “dolce”, acustico nella parte iniziale.

The Perfect Mess mi ha ricordato un pezzo dei Prodigy, “Invaders must die”, almeno nel riff della chitarra; subito dopo ancora un pezzo con introduzione calma, Behind A Wall. 

Stranger ha nuovamente come protagonista la voce femminile, mentre Speech Coma, sempre cantata dalla ragazza, ha lo stile di una cantilena durante il ritornello, molto distorto e con voci “sporche”.

Don’t Get Caught è un pezzo abbastanza anonimo mentre la successiva Cigarettes In The Dark è un susseguirsi di sillabe da parte della cantante intervallate da qualche nota di chitarra e batteria.

L’album si chiude con Tightwire, senza nessun punto di merito in particolare.

Per concludere direi che si tratta di un gruppo interessante, che vede la sua peculiarità nell’essere composto solamente da due persone ma non farlo pesare con la mancanza di completezza del suono.

A risentirci!

Diagrams – Black Light (2012)

Sam Genders è un nome che probabilmente non vi dirà niente, ma in effetti qualche suo lavoro l’ho già trattato. Stiamo parlando del fondatore ed ex frontman dei Tunng, gruppo molto interessante con sonorità particolari dovute anche all’utilizzo di strumentazioni non convenzionali.

Non conosco le ragioni del suo allontanamento dal suo gruppo di origine e ne sono amareggiato, ma allo stesso tempo spero che sia riuscito a fare qualcosa di buono anche per conto suo. Con la band Diagrams ha pubblicato due album, Black Light (2012) che sto per ascoltare e Chromatics (2015) , che non mancherò di recensire. Partiamo subito con la recensione in tempo reale.

Come procederà la carriera del nostro cosplayer di Salvatore Aranzulla?
Come procederà la carriera del nostro cosplayer di Salvatore Aranzulla?

 

  1. Ghost Lit parte immediatamente con la voce che ha caratterizzato i Tunng, rassicurante, ripetitiva e accompagnata da effetti sonori particolari, riscontrabili soprattutto intorno ai due minuti. Gli archi presenti sono un’aggiunta gradita rispetto al passato.
  2. Tall Buildings sembra partire come una canzone dei Queen per poi diventare electro-pop. Il gioco presente tra le due voci (entrambe di Sam Genders, sembrerebbe) contribuisce a migliorare il tutto. Sui tre minuti è la voce a dettare il ritmo.
  3. Night All Night vede la solita voce del cantante a fare da controcanto a se stesso; intorno al primo minuto arrivano la ripetizione e l’attenzione data al suono delle parole tipiche dei Tunng.
  4. Appetite strizza l’occhio ad un’elettronica anni 80, fino al ritornello che vede l’intervento degli archi. Una seconda voce si sente in lontananza, quasi a rispondere alla prima.
  5. Mills segue il ritmo del basso. Sam canta ogni sillaba solo nel momento in cui la linea di basso procede. Grazie a questo espediente tutto il pezzo risulta molto ritmato.
  6. Antelope vede l’aggiunta di un suono particolare che non sono riuscito ad analizzare a fondo, sembrerebbe il verso di un animale imitato da uno strumento tipo synth.
  7. Black Light è un pezzo molto pop, ritmo costante, melodia ripetitiva e che entra in testa. Intorno ai 3 minuti ci sono alcune pause che spezzano la continuità altrimenti costante all’interno del brano.
  8. Animals ricalca perfettamente una canzone tipo dei Tunng: strumenti strani, coretti in lontananza, una voce femminile accennata.
  9. Peninsula è abbastanza banale e pop, con finale improvvisamente corale ed accompagnata da drum machine. Il pezzo dura 8 minuti, senza questo cambiamento sarebbe risultato molto pesante, secondo me. Dopo 14 minuti di silenzio parte una ghost track, contenente inizialmente solo voci e batteria che simula le pale di un elicottero. Si aggiungono dunque gli altri strumenti per un finale tipico da canzone pop, senza ulteriori sorprese.

Cosa dire? Mi sembra che sia un album dei Tunng, più allegro ma molto meno sperimentale. La mancanza di  Becky Jacobs (voce femminile dei Tunng) e di Mike Lindsay (chitarrista e secondo cantante) si sente e in generale Sam Genders mi sembra aver preso una strada pop; spero che non sia così, rimando ulteriori aggiornamenti al momento in cui ascolterò il suo secondo album, per confermare o smentire questa impressione.

Non si tratta comunque di un album da buttare, quindi buon ascolto in ogni caso!

 

 

Brave Baby – Electric Friends [2015]

Ho abbandonato la zona Noisetrade da un pò, poichè era da tempo che non riuscivo a trovare un gruppo o un album interessante. Dopo i 1965 (che mi impegno a recensire) mi sono ritrovato virtualmente tra le mani questo album di un altro gruppo semi-sconosciuto, i Brave Baby.

L’EP in questione si chiama Electric Friends e sto scrivendo questa recensione al suo primo ascolto; ho avviato una canzone a caso dell’album, mi è piaciuto lo stile del cantante e ho deciso di buttare giù queste due righe.

Essendo un insieme di impressioni a caldo vi invito ad essere clementi con me per i probabili errori che conseguiranno nella scrittura.

No, non sono loro gli electric friends
No, non sono loro gli electric friends

1) Daisy Child ha un inizio che mi ha riportato alla mente un pezzo di Amy Winehouse; canzone tranquilla, voce in lontananza, registrato quasi amatorialmente.

2) Find You Out sembra un pezzo tipico rock pop anni 2000 americano, senza particolari colpi di scena o cambi repentini di ritmo.

3) Plastic Skateboard mi è entrata nella testa senza abbandonarmi subito, al primo ascolto. Non è complessa dal punto di vista musicale, è semplicemente orecchiabile e l’unica pecca è la registrazione altalenante che porta a sbalzi di volume improvvisi. Spero che in futuro riescano a registrare questo ed altri pezzi a qualità superiore.

4) OJ ci fa sentire la voce del secondo cantante, più bassa, meno distorta e più classica. Ritmo carino, basso molto presente senza però andare a sovrastare la batteria, la tastiera e la chitarra, presenti ma solo per qualche accordo ed un breve riff.

5) Atlantean Dreams ci porta in un’atmosfera sognante, guidati dalla voce calda del secondo cantante, tipica dei pianobar stile Richard Cheese. Improvvisamente le voci si uniscono e creano un coretto stile Queen (più “a caso”, naturalmente).

6) Be Alright mi ha fatto pensare subito allo stile tipico degli anni ’80; non sfigurerebbe in una radio stile Emotion 98.3 di GTA VICE CITY.

7) Electric Friends è un lento non molto interessante.

8) Ancients vede il ritorno del nostro secondo cantante in grado di trasformare ogni pezzo in un richiamo continuo al passato, non so nemmeno il perchè; sarà l’abbinamento voce calda e synth con la batteria che tiene giusto il tempo.

9) Larry On The Weekend sembra continuare il pezzo precedente, cambiando il ritmo ma non lo stile.

10) Hare Krishna si basa sull’unione delle due voci e la chitarra classica, quasi una sorta di inno religioso, accompagnato da percussioni e basso nella seconda parte.

11) Call It chiude l’album senza cambiare molto alla struttura vista fino a questo punto. Stile anni ’80 e andamento lineare.

In conclusione penso che farò più spesso qualche “””recensione””” del genere, anche solo per scrivere non troppo positivamente a proposito di qualche album: ad esempio non me la sento di consigliare Electric Friends a tutti, ci sono un paio di canzoni che mi piacciono ma nel complesso mi ha dato l’idea di una rivisitazione degli anni ’80 senza alcun tentativo di approccio innovativo.

Al prossimo ascolto!

The Aristocrats @ Planet Live Club (18/02/2016)

IMG_20160219_225345Il club era più gremito del previsto al mio ingresso con Federico, Luca, Tullio e Sandro. Data la vocazione piuttosto “di nicchia” del super trio abbiamo subito notato una sovrabbondante presenza maschile (per cause di mera statistica), alla quale i componenti sembravano abituati, tanto da scherzarci su dal palco.
L’ironia e il divertimento sono il filo portante delle produzioni della band strumentale insieme ad una stupefacente qualità tecnica.

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Recensione quarto album dei Creedence Clearwater Revival

51d5hSGlAsLAutore: Creedence Clearwater Revival

Titolo Album: Willy And The Poor Boys

Anno: 1969

Casa Discografica: Fantasy Records

Genere musicale: Rock

Voto: 10

Tipo: LP

Sito web: http://www.creedence-online.net/

Membri band:
John Fogerty – voce, chitarra, sax tenore, armonica a bocca, tastiere
Tom Fogerty – chitarra, voce
Stu Cook – basso
Douglas “Cosmo” Clifford– batteria, voce

Tracklist:
1. Down On The Corner
2. It Came Out Of The Sky
3. Cotton Fields
4. Poorboy Shuffle
5. Feelin’ Blue
6. Fortunate Son
7. Don’t Look Now
8. The Midnight Special
9. Side O’ The Road
10. Effigy

Il quarto album dei CCR è Willy And The Poor Boys. Uscito nel 1969, il terzo dei Creedence in quell’anno. Una band dunque che si permette di fare ben 3 album in 12 mesi. Questo può significare solo una cosa, anzi due: fervore creativo e scandaglio profondo del rock nelle sue matrici tradizionali di folk, blues e country facendole rivivere in un rock moderno, minimale e diretto. Alla Creedence maniera, come abbiamo ormai imparato a conoscerla. Continua a leggere Recensione quarto album dei Creedence Clearwater Revival