“Rock’n’roll can never die”: il rock’n’roll non può morire. Lo cantava nel 1979, Neil Young, e continua a gridarlo oggi. Una banalità? Forse, ma non in bocca a lui. Nessuno come questo allampanato canadese, infatti, ha incarnato il rock in tutte le sue anime; lo ha vissuto dentro: nei nervi, nella pancia, nel cuore. Al punto che oggi ne porta addosso i segni: il viso solcato dalle rughe, la schiena ingobbita, l’aspetto terribilmente vissuto. Tutto, in lui, mostra le tracce di una lunga battaglia: quella contro l’alcol e le droghe, contro i fantasmi degli amici scomparsi, contro le nevrosi e i dolori d’una vita.
Gli Hellblinki sextet sono un trio steampunk del Nord Carolina. Detto così sembrano degli idioti, ma come ogni gruppo indie che tenta di emergere, cerca di far riscontrare un qualcosa di strano sin dal nome. Il loro unico album che ho e’ Oratory, acquistato circa due settimane fa; mi hanno colpito sin da subito,vuoi per la voce del cantante fortemente modificata attravero filtri, vuoi per le sonorita’ particolari, a causa dell’unione di strumenti quali piano, synth e violini. C’e’ da dire, inoltre, che mi hanno sorpreso con la quinta canzone dell’album, Bella Ciao. Dopo i primi quattro brani (il primo si chiama The end, per fare gli alternativi ad ogni costo) abbastanza veloci e melodici, pur avendo la voce del cantante che sembra quasi stonare con il resto, ci ritroviamo con la nota canzone italiana.
Conoscevo già i Protest The Hero, li ascoltai per la prima volta nel 2011 con Scurrilous, e quando ho visto la copertina del loro ultimo album, nei negozi il 29 Ottobre, mi sono detto che sarebbe stato il caso di ascoltarli ancora. L’artwork è del pittore surrealista americano Jeff Jordan, che aveva già prodotto cover per altre band e che mi ha splendidamente convinto dopo pochi secondi.
Con un pò di ritardo ecco a voi la prima recensione del Cinewaste. Oggi parleremo,come avrete intuito dal titolo,di Elephant film del 2003 diretto da Gus Van Sant vincitore della palma d’oro come miglior film e per la miglior regia al festival di Cannes;In questo film Van Sant descrive su pellicola, con una visione del tutto fuori dagli schemi,la strage alla Columbine High School, i fatti vengono dipinti in maniera molto realistica grazie alla tipologia di inquadrature e all’uso minimo di “stacchi”; Troviamo un largo uso di carrellate alle spalle dei protagonisti che ci permettono di seguire l’azione come se fossimo parte del film.
Come può un artista del passato prendersi la sua rivincita oggi? Con soli 3 album in studio Nick Drake è considerato uno dei più importanti musicisti degli anni ‘70. Eppure nessuno si accorse di lui all’epoca. Come spesso accade nella storia del rock e del blues molti musicisti si sono battuti per conquistarsi una fetta di successo raggiunto solo dopo la loro scomparsa (a volte prematura).
Perse la vita nel fiore degli anni lasciando in eredità tutta la sua musica specchio della propria anima e della sua personale visione del mondo. A soli 21 anni un giovane come Nick Drake non poteva aspettarsi ciò che realmente gli stava succedendo, eppure siamo negli anni ’70, anni in cui le rivoluzioni musicali esplodevano giorno dopo giorno: a Londra Jimi Hendrix faceva strage, nascevano i Led Zeppelin quando il timido cantautore inglese iniziò a suonare la chitarra evidenziando la passione per il blues e per Bob Dylan.
Furono i Fairport Convention a procurargli nel 1969 un’audizione con il produttore Joe Boyd. Nello stesso anno nacque Five Leaves Left titolo ispirato dall’avviso che riportavano le cartine da tabaccoquando ne restavano solamente cinque “five leaves left”.
Mi trovo quasi in difficoltà a dover parlare del mio gruppo preferito in assoluto. Aggiungiamo a cio’ il dover parlare del mio album preferito e della mia canzone preferita, ed allora capirete che non potro’ che essere di parte. Gli Explosions in the Sky sono un gruppo post-rock americano, composto da tre chitarre elettriche e una batteria (o alcune volte due chitarre elettriche, un basso e una batteria). Personalmente li ammiro molto per aver mantenuto inalterato il loro stile nel corso dei vari album, senza piegarsi al mercato.
L’album di cui voglio parlare brevemente è “The Earth is not a Cold Dead Place”.
L’apertura è lasciata a “First Breath After Coma”, accompaganata da una batteria sempre pulita e precisa; le chitarre ci accompagnano in modo psichedelico, a volte senza effetti di nessun tipo, altre volte distorte, andando a creare una sorta di climax che si chiude all’inizio della seconda parte della canzone, ma senza concludersi in modo preciso. Cosi’ arriva “The Only Moment We Were Alone”, che tutti ricorderanno per la pubblicità dei pisellini Findus. Ammetto che sentire una canzone quasi psichedelica associata all’immagine di una mano all’interno di un bustone di pisellini mi ha turbato e non poco, ma non per questo perde il suo fascino.
Rappresenta, come ogni canzone degli Explosions, un viaggio interiore che puoi vivere chiudendo gli occhi ed affidandoti alla musica. Proseguiamo allora con “Six Days at the Bottom of the Ocean”, forse la canzone più elegante dell’album, perfettamente suddivisa in due; la prima parte più calma, la seconda quasi incalzante, ma mai eccessiva. Memorial parte in modo molto tranquillo, forse addirittura troppo; per tutto il brano troviamo una tranquillità quasi assoluta, con poche ma significative variazioni di volume e accordi. Giungiamo dunque alla mia canzone preferita, che è anche l’ultima dell’album: “Your Hand In Mine”. Tre singole note aprono il brano; gli accordi cominciano ad inseguirsi, accompagnati solo durante i momenti più concitati dalla batteria acustica.
Arrivati a circa 2:25 inizia la canzone vera e propria: si presenta come un viaggio interiore, in contemplazione delle emozioni umane. Il crescendo della batteria giunge fino ad un punto in cui le emozioni esplodono insieme alla chitarra, ed il ritmo torna a cambiare; prima si trasforma quasi in una marcia, poi torna la calma. Giunge dunque al termine dopo un ultimo, breve, sprint.
Concludo dicendo solo che conviene sentire l’intero album, essendo un pilastro del Post-Rock moderno, avvicinandosi con una mentalità aperta e fantasiosa, in grado di cogliere le varie sfumature musicali in correlazione con la propria emotività.
Chelsea Wolfe è una cantautrice californiana, inseribile nel panorama folk (mi è passato in testa anche neofolk ma quello lo lasciamo al suo posto).
Quel folk però è un folk come sono folk gli Agalloch. Non è country, non è tradizionale (anzi), ma lo senti che lo è.
Si è fatta notare con Apokalypsis nel 2011, album senza precedenti, fatto di doom, graffi e angeliche carezze post-apocalittiche.
Questo nuovo album è sotto una luce diversa però , più depressa e indecisa. È forte il tema dell’isolamento e qualche misantropismo. Il titolo stesso è un capovolgimento del paradigma femminile di “Beauty is Pain” che poi da noi è chi bella vuole apparire, un poco deve soffrire.
Alcune tracce (più evidentemente Kings e House of Metal) palesano dei synth, assenti negli album precedenti, a cui si aggiungono sperimentazioni sinfoniche (o armonico-melodiche) come in The Waves Have Come, con una componente strumentale più presente.
Gli accordi acustici in Lone e They’ll Clap When You’re Gone sono nella più perfetta tradizione dark-folk, come ad esempio in (mi viene in mente) The Mantle dei sopracitati Agalloch.
Chelsea Wolfe viene da un album chiamato Unknown Rooms: A Collection of Acoustic Songs dove ha potuto affinare la sua predisposizione all’acustico che non ci ha fatto pesare troppo ancora in questo nuovo album.
Nel complesso si può dire che Chelsea Wolfe ha prodotto ancora un album profondo e sentito, ma reso stavolta più ascoltabile da quel pubblico a cui non piace la musica coi canini di fuori.
È quello che ho pensato dopo pochi minuti di ascolto di Wild Light, l’ultimo album degli affermati 65daysofstatic, formazione di Sheffield che già dal 2004/2005 si è fatto un nome nel panorama post-rock, e l’ha affermato nel 2007 con The Destruction of Small Ideas.
Ho pensato questa cosa perché ho già ascoltato Origins dei God is Astronaut (ci starebbe bene un’altra recensione per quest’altro). L’ho pensato anche perché ho ascoltato A Healthy Fear dei Gifts From Enola. L’ho pensato anche perché ho ascoltato All Hail Bright Futures degli And So I Watch You From Afar, o Kveikur dei Sigur Rós (ci starebbe bene un’altra recensione un po’ per tutti questi).
Non voglio mettere tutto dentro un calderone eh. Solo che non si può non vedere quanto ci abbiano preso la manina a usare effettini e synthini un po’ dappertutto. Gli è piaciuto come poteva venire mettendoci un po’ più di salsa electronica.
Ma pensiamo un’album alla volta. Wild Light non è male. È piacevole da ascoltare, è distensivo, è abbastanza post-rock. Il gruppo ha da sempre avuto sperimentazioni elettroniche, forse è stato il primo gruppo ad affermarle con decisione, prima con The Fall of Math e negli ultimi tempi con l’EP The Coach Road Sessions e poi con il full-lenght The Last Dance hanno inserito pezzi decisamente impostati alla maniera electro (tipo Dance Dance | Piano Fight ) intervallati da pezzi tradizionalmente post-rock (tipo Burial Scene). Se c’era un gruppo che si poteva permettere di fare questa cosa senza sorprese, erano loro.
In questo nuovo album la fusione però è stata più completa, la distanza meno netta; il risultato piacevole.
Nelle tracce come Blackspots e Sleepwalk City sembra di ascoltare i God is an Astronaut per gli effetti dati agli strumenti, rinunciando un po’ ai pezzi di piano e all’electro stile IDM come in The Destruction of Small Ideas e The Fall of Math. In altre tracce, come in quella d’apertura di questo nuovo album, o Prisms, ti pare di stare ascoltando i Justice o Apparat.
In ogni caso queste influenze sono più che buone, e il risultato di questa fusione mi è complessivamente sembrato più coerente, direi omologato. Questo a me però.
Posso già sentire un purista in lontananza dire “Gli Explosions In The Sky e i Godspeed You! Black Emperor, quello è post-rock, non st’ibrido demmerda”.
Ma si sa, i puristi sono perennemente insoddisfatti.
Partiamo dal presupposto che è difficile trovare una categoria precisa per i Tunng; si possono definire in maniera generica appartenenti alla folktronica, genere musicale composto da elementi di musica folk ed elettronica, con uso massiccio di strumenti acustici.
La particolarità del gruppo, pero’, é da ricercarsi nell’uso di oggetti atipici (ad esempio gusci di conchiglia), alla ricerca di sonorità diverse. Personalmente, poi, apprezzo molto il risultato dell’unione delle voci, a volte perfettamente amalgamate, a volte contrastanti, essendo pero’ sempre un qualcosa di voluto e ricercato. I componenti attuali:Mike Lindsay, Ashley Bates, Phil Winter, Becky Jacobs, Martin Smith, Simon Glenister. Ex componente: Sam Genders.
La prima traccia dell’album Turbines, “Once”, è semplice e si riscontrano subito i classici elementi delle canzoni dei Tunng:
strumento acustico, voci maschile e femminile che si sovrappongono portando avanti in modo ripetitivo il ritornello, elettronica non dominante ma nemmeno appena accennata.Gli amanti della folktronica troveranno in questo disco pane per i loro denti. Anche se non é il vostro genere, date loro una possibilità, non è un disco di difficile ascolto.
Comincia quindi “Trip Trap”, in un alternarsi di voce maschile e femminile, accompagnati da una chitarra acustica che inizialmente sembra uscire da una canzone dei “The XX”. Si aggiunge quindi la parte elettronica, lasciando per un attimo spazio alla musica, tornando infine all’agglomerato di voci, un susseguirsi di momenti che si ripetono fino alla fine.
Proseguiamo con “By This”, brano che mantiene fedelmente lo stile passato del gruppo. Ammetto che la parte elettronica al minuto 1:28 mi ha ricordato in modo lontano “Impressioni di Settembre”.
Quarto brano, “The Village”, nel quale si sente lo staccato della plettrata, che dona al brano, altrimenti malinconico, una nota di tranquillità e allegria.
“Bloodlines” sembra rappresentare quasi un inno, al suono del quale marciare circondati dalla natura.
Con “Follow Follow” ho avuto l’impressione di star ascoltando una versione alternativa di Sound of Silence, nelle prime battute.
Poi interviene la parte elettronica, portando la canzone a cambiare in modo quasi irriconoscibile, tornando sui suoi passi verso la seconda parte.
Credo di poter dire che si tratta della mia canzone preferita nell’album, anche se la voce femminile trova la sua giusta valorizzazione solo alla fine.
“So far from here” ci presenta una caratteristica tipica dei Tunng: il testo arriva a dire “and we’ll run” mentre la chitarra quasi sembra rallentare, creando una sorta di oasi in cui ci si puo’ riposare prima di cominciare a correre.
Gli ultimi due brani sono quelli che mi hanno convinto di meno. “Embers” presenta un ritmo più pressante, in cui le voci si inseguono accompagnate dalla chitarra. “Heavy Rock” chiude l’album con una calma forse fin troppo eccessiva, distaccandosi in modo netto dalle precedenti canzoni.
Tirando le conclusioni: “Turbines” é un album che non mi ha deluso.
Non dico che sia il loro album che preferisco, ma i Tunng sono riusciti a mantenere cio’ che avevano in un certo senso promesso con le loro (perdonatemi il gioco di parole) premesse. Potete sentire l’album in questione premendo play qui accanto, fatemi sapere cosa ne pensate!