Sfogliando una rivista musicale in edicola ho notato un riquadro in un angolo con una ragazza che aveva dei dread che arrivavano alle caviglie e con una faccia che sembrava volesse mozzicare il microfono. Il nome della band era OvO. Come una faccina con un becco. Una volta associato il nome ad una copertina di un album ho realizzato che l’avevo già visto da qualche parte tra i miei ascolti consigliati.
[RevieWaste] Il concerto di Neil Young a Roma (a cura di Sara Fabrizi)
“Rock’n’roll can never die”: il rock’n’roll non può morire. Lo cantava nel 1979, Neil Young, e continua a gridarlo oggi. Una banalità? Forse, ma non in bocca a lui. Nessuno come questo allampanato canadese, infatti, ha incarnato il rock in tutte le sue anime; lo ha vissuto dentro: nei nervi, nella pancia, nel cuore. Al punto che oggi ne porta addosso i segni: il viso solcato dalle rughe, la schiena ingobbita, l’aspetto terribilmente vissuto. Tutto, in lui, mostra le tracce di una lunga battaglia: quella contro l’alcol e le droghe, contro i fantasmi degli amici scomparsi, contro le nevrosi e i dolori d’una vita.
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[BlueStorieS] Il blues – Le origini
Il blues è prima di tutto un sentimento, una conoscenza sensoriale, un’entità non una teoria, in cui il sentimento è la forma e il viceversa. Blues è il passato, l’andato, tutto ciò che è stato espresso e l’espressivo, l’esperienza andata, l’ignoto che verrà e ogni cosa al di fuori del tempo.
Amiri Baraka, Il popolo del Blues
“To have a blue devil’s”, avere i diavoli blu… con questa frase di origine vittoriana si identificava uno stato d’animo, un malessere nei confronti della vita, un sentimento.
Il blues identifica la tradizione musicale che più ha caratterizzato lo status e la cultura delle popolazioni nere americane.
È difficile stabilire una data esatta dell’origine del blues ma si può tracciare un periodo storico: probabilmente iniziò a circolare negli Stati Uniti d’America tra l’ultima decade del 1800 e i primi anni del 1900.
Il luogo di origine era il Sud, nel Delta del Mississippi, una vasta piana alluvionale che sorge alla confluenza di due fiumi: il Mississippi e lo Yazoo. Era questa una terra fertilissima che produsse dall’inizio del diciannovesimo secolo grandi quantità di cotone alla cui raccolta fu destinato un numero enorme di schiavi che per alleggerire la fatica e comunicare tra loro, iniziarono a cantare i propri sentimenti.
“John the revelator” è un canto tradizionale, una delle canzoni più influenti per tutti gli artisti blues. Blind Willie Johnson registrò “John the Revelator” nel 1930. Successivamente una serie di artisti registrarono le loro interpretazioni della canzone, spesso con variazioni di versi e musica tra cui appunto Son House con la versione che qui vi propongo. Il titolo della canzone si riferisce all’apostolo Giovanni, autore del “Libro della Rivelazione” e cita alcuni passi della Bibbia.
[PoeticWaste] Le poesie di Michele Cristiano Aulcino
Oggi con mio immenso piacere iniziamo una nuova sezione per il nostro blog dedicata alle vostre poesie. Scriveteci e inviateci il vostro materiale sul nostro indirizzo email o contattateci direttamente sulla nostra pagina facebook.. saremo ben lieti di poter pubblicare le vostre creazioni.
L’artista (amico) che ospiteremo in queste poche righe è Michele Cristiano Aulcino (bibappa lula). Nasce a Potenza il 10.04.1979, ha studiato nella facoltà di ingegneria chimica e ha vissuto e vive tra Marsiconuovo, Napoli e Pisa.
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[RevieWaste] Hellblinki – Oratory
Gli Hellblinki sextet sono un trio steampunk del Nord Carolina. Detto così sembrano degli idioti, ma come ogni gruppo indie che tenta di emergere, cerca di far riscontrare un qualcosa di strano sin dal nome. Il loro unico album che ho e’ Oratory, acquistato circa due settimane fa; mi hanno colpito sin da subito,vuoi per la voce del cantante fortemente modificata attravero filtri, vuoi per le sonorita’ particolari, a causa dell’unione di strumenti quali piano, synth e violini. C’e’ da dire, inoltre, che mi hanno sorpreso con la quinta canzone dell’album, Bella Ciao. Dopo i primi quattro brani (il primo si chiama The end, per fare gli alternativi ad ogni costo) abbastanza veloci e melodici, pur avendo la voce del cantante che sembra quasi stonare con il resto, ci ritroviamo con la nota canzone italiana.
[RevieWaste] Protest The Hero – Volition
Conoscevo già i Protest The Hero, li ascoltai per la prima volta nel 2011 con Scurrilous, e quando ho visto la copertina del loro ultimo album, nei negozi il 29 Ottobre, mi sono detto che sarebbe stato il caso di ascoltarli ancora. L’artwork è del pittore surrealista americano Jeff Jordan, che aveva già prodotto cover per altre band e che mi ha splendidamente convinto dopo pochi secondi.
[CineWaste] Elephant – Gus Van Sant
Con un pò di ritardo ecco a voi la prima recensione del Cinewaste. Oggi parleremo,come avrete intuito dal titolo,di Elephant film del 2003 diretto da Gus Van Sant vincitore della palma d’oro come miglior film e per la miglior regia al festival di Cannes;In questo film Van Sant descrive su pellicola, con una visione del tutto fuori dagli schemi,la strage alla Columbine High School, i fatti vengono dipinti in maniera molto realistica grazie alla tipologia di inquadrature e all’uso minimo di “stacchi”; Troviamo un largo uso di carrellate alle spalle dei protagonisti che ci permettono di seguire l’azione come se fossimo parte del film.
[RevieWaste] Nick Drake – Five Leaves Left
Come può un artista del passato prendersi la sua rivincita oggi? Con soli 3 album in studio Nick Drake è considerato uno dei più importanti musicisti degli anni ‘70. Eppure nessuno si accorse di lui all’epoca. Come spesso accade nella storia del rock e del blues molti musicisti si sono battuti per conquistarsi una fetta di successo raggiunto solo dopo la loro scomparsa (a volte prematura).
Perse la vita nel fiore degli anni lasciando in eredità tutta la sua musica specchio della propria anima e della sua personale visione del mondo. A soli 21 anni un giovane come Nick Drake non poteva aspettarsi ciò che realmente gli stava succedendo, eppure siamo negli anni ’70, anni in cui le rivoluzioni musicali esplodevano giorno dopo giorno: a Londra Jimi Hendrix faceva strage, nascevano i Led Zeppelin quando il timido cantautore inglese iniziò a suonare la chitarra evidenziando la passione per il blues e per Bob Dylan.
Furono i Fairport Convention a procurargli nel 1969 un’audizione con il produttore Joe Boyd. Nello stesso anno nacque Five Leaves Left titolo ispirato dall’avviso che riportavano le cartine da tabacco quando ne restavano solamente cinque “five leaves left”.
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[RevieWaste] Explosions in the Sky – The Earth Is Not a Cold Dead Place
Mi trovo quasi in difficoltà a dover parlare del mio gruppo preferito in assoluto. Aggiungiamo a cio’ il dover parlare del mio album preferito e della mia canzone preferita, ed allora capirete che non potro’ che essere di parte. Gli Explosions in the Sky sono un gruppo post-rock americano, composto da tre chitarre elettriche e una batteria (o alcune volte due chitarre elettriche, un basso e una batteria). Personalmente li ammiro molto per aver mantenuto inalterato il loro stile nel corso dei vari album, senza piegarsi al mercato.
L’album di cui voglio parlare brevemente è “The Earth is not a Cold Dead Place”.
L’apertura è lasciata a “First Breath After Coma”, accompaganata da una batteria sempre pulita e precisa; le chitarre ci accompagnano in modo psichedelico, a volte senza effetti di nessun tipo, altre volte distorte, andando a creare una sorta di climax che si chiude all’inizio della seconda parte della canzone, ma senza concludersi in modo preciso. Cosi’ arriva “The Only Moment We Were Alone”, che tutti ricorderanno per la pubblicità dei pisellini Findus. Ammetto che sentire una canzone quasi psichedelica associata all’immagine di una mano all’interno di un bustone di pisellini mi ha turbato e non poco, ma non per questo perde il suo fascino.
Rappresenta, come ogni canzone degli Explosions, un viaggio interiore che puoi vivere chiudendo gli occhi ed affidandoti alla musica. Proseguiamo allora con “Six Days at the Bottom of the Ocean”, forse la canzone più elegante dell’album, perfettamente suddivisa in due; la prima parte più calma, la seconda quasi incalzante, ma mai eccessiva. Memorial parte in modo molto tranquillo, forse addirittura troppo; per tutto il brano troviamo una tranquillità quasi assoluta, con poche ma significative variazioni di volume e accordi. Giungiamo dunque alla mia canzone preferita, che è anche l’ultima dell’album: “Your Hand In Mine”. Tre singole note aprono il brano; gli accordi cominciano ad inseguirsi, accompagnati solo durante i momenti più concitati dalla batteria acustica.
Arrivati a circa 2:25 inizia la canzone vera e propria: si presenta come un viaggio interiore, in contemplazione delle emozioni umane. Il crescendo della batteria giunge fino ad un punto in cui le emozioni esplodono insieme alla chitarra, ed il ritmo torna a cambiare; prima si trasforma quasi in una marcia, poi torna la calma. Giunge dunque al termine dopo un ultimo, breve, sprint.
Concludo dicendo solo che conviene sentire l’intero album, essendo un pilastro del Post-Rock moderno, avvicinandosi con una mentalità aperta e fantasiosa, in grado di cogliere le varie sfumature musicali in correlazione con la propria emotività.
[RevieWaste] Chelsea Wolfe – Pain Is Beauty
Chelsea Wolfe è una cantautrice californiana, inseribile nel panorama folk (mi è passato in testa anche neofolk ma quello lo lasciamo al suo posto).
Quel folk però è un folk come sono folk gli Agalloch. Non è country, non è tradizionale (anzi), ma lo senti che lo è.
Si è fatta notare con Apokalypsis nel 2011, album senza precedenti, fatto di doom, graffi e angeliche carezze post-apocalittiche.
Questo nuovo album è sotto una luce diversa però , più depressa e indecisa. È forte il tema dell’isolamento e qualche misantropismo. Il titolo stesso è un capovolgimento del paradigma femminile di “Beauty is Pain” che poi da noi è chi bella vuole apparire, un poco deve soffrire.
Alcune tracce (più evidentemente Kings e House of Metal) palesano dei synth, assenti negli album precedenti, a cui si aggiungono sperimentazioni sinfoniche (o armonico-melodiche) come in The Waves Have Come, con una componente strumentale più presente.
Gli accordi acustici in Lone e They’ll Clap When You’re Gone sono nella più perfetta tradizione dark-folk, come ad esempio in (mi viene in mente) The Mantle dei sopracitati Agalloch.
Chelsea Wolfe viene da un album chiamato Unknown Rooms: A Collection of Acoustic Songs dove ha potuto affinare la sua predisposizione all’acustico che non ci ha fatto pesare troppo ancora in questo nuovo album.
Nel complesso si può dire che Chelsea Wolfe ha prodotto ancora un album profondo e sentito, ma reso stavolta più ascoltabile da quel pubblico a cui non piace la musica coi canini di fuori.
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(streaming non completo)