Intervista a Dan Stuart @ Deliri Noise Hub, 6 Luglio 2016

“Daniel Gordon “Dan” Stuart (Los Angeles, 5 marzo 1961) è un musicista statunitense noto per essere stato il cantante dei Green on Red e per la collaborazione con Steve Wynn nel duo Danny and Dusty.”

Noi l’abbiamo incontrato grazie all’associazione culturale musicale Deliri Noise Hub presso il locale Deliri Cafè Bistrot di Sora che ha ospitato l’evento.
L’intervista, in inglese, è stata tenuta da Audrey (un grazie anche a Gabriella) e la trovate insieme al concerto nella sezione Live Radio della Stagione 4.

Audrey: Quando hai iniziato a viaggiare, intorno agli anni ’80, hai notato cambiamenti nel modo in cui le persone interpretano la tua musica?

Dan Stuart: Voglio rassicurare i miei amici italiani: dagli anni ’80 ad oggi l’Italia è sempre l’Italia. So che si sono preoccupati di questo specialmente durante gli anni di Berlusconi e durante l’americanizzazione dell’Italia, che inizia alla fine degli anni ’80 credo.
Ma c’è anche qualcosa che è cambiato: ai vecchi tempi chiunque, non importa di quale appartenenza regionale o di classe economica, aveva un po’ il suo senso dello stile. Adesso si vestono tutti nello stesso modo pacchiano, e questo è cambiato. Le generazioni “passate” non hanno perso il loro stile, ma i ragazzi sotto i 40 diciamo, hanno un po’ perso la strada.
Il cibo poi è davvero spettacolare. Non parlo italiano ed è difficile andare in profondità su cosa è cambiato, ma l’Italia in generale è ancora piena di gente accogliente e generosa. Sono stato in Calabria, in Sicilia e il loro livello di ospitalità è davvero impressionante.
Per quanto riguarda il resto dell’Europa ad esempio il regno unito si è molto continentalizzato, quindi si è spostato di più nell’Europa; io sono davvero pro-UE. Non mi piace la sua parte degli accordi commerciali, ma la gente dimentica quanta gente è morta per l’europa nel XX secolo, quindi è importante ricordare quanto l’UE è una idea importante. Gli europei viaggiano molto di più in europa e questa è una grande cosa. Ma per me non c’è Italia, Francia, Spagna: c’è l’Europa e i suoi diversi dialetti.

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A: Qual è il rapporto tra la musica e la letteratura che ti ha ispirato? C’è qualche autore americano contemporaneo che segui?

DS: Sono un prodotto di molti gradi autori del XX secolo, da Hemingway a Raymond Carver. Come questo si traduca poi in musica non mi è affatto chiaro. Sono cresciuto in un’epoca in cui il rock’n’roll era una nuova forma di letteratura, e questo è stato bello.
E anche la critica del rock’n’roll era fantastica, roba molto seria. Scrittori come Richard Meltzer, Lester Bangs hanno iniziato con questo genere che poi è rientrato nella musica pop.
Detto questo le canzoni sono facili da scrivere. Sono come uno sprint, ma nemmeno uno sprint dei 100 metri, sono 50 metri. Una canzone si scrive molto velocemente, puoi metterci anni per finirla ma entra dalla finestra quando la lasci aperta e sai che hai qualcosa. Non c’è bisogno di molta disciplina, al contrario di altre forme di scrittura come ad esempio un romanzo; un romanzo è come una maratona, forse 5 maratone.
È un passatempo, e rende le persone felici, il che è un bene, oppure le fa piangere o ridere. Connette sul livello umano.

Ricordo quando potevi farci soldi. Adesso è un qualcosa di assurdo, ma anche prima lo era, solo che potevi farci dei soldi. Adesso abbiamo tutta l’assurdità ma niente più soldi.
Devi accettare di sembrare patetico, specialmente quelli della mia generazione. Avevo una band che si chiamava Green On Red, che faceva quasi un album all’anno per una decina d’anni. Ma da solo ho fatto solo 3 album, e sono orgoglioso di questo. Perché molti miei contemporanei ne hanno fatti 30: e dici “Davvero? Hai così tanto da dire?”. È molto un fatto economico, perché è cambiato il lato economico della musica. Quelli della mia generazione sono infami perchè screditano i ragazzini, che invece hanno bisogno di ossigeno per fare quello che vogliono e per essere presi sul serio.
Quello che mancano sono le voci critiche e autorevoli che puntano il dito e dicono questo è buono, questo è cattivo.
Ora, dato che internet è piatta, tutti vincono un premio e tutti sono sullo stesso livello di nullità.

13627038_780022465431352_6385186546244289969_nA: Com’è la tua collaborazione con Antonio Gramentieri?

DS: Ho incontrato Gramo con i Green On Red prima del crollo finanziario del 2008. Abbiamo fatto un tour per fare quanti più soldi possibili e cogliere questa opportunità di guadagno facendo una reunion. L’ho incontrato ad un festival e mentre guidavamo lungo la costa della Toscana credo, ho ascoltato la musica che stava facendo per uno show televisivo italiano e gli ho chiesto perché perdeva tempo ad aiutare dei perdenti come me, dovrebbe avere un suo progetto.
Sono stato fortunato coi chitarristi. Altri chitarristi come Chuck Prophet con cui ho prodotto tante canzoni, ama il modo di suonare di Antonio.
È stato un po’ un talento tardivo, ha fatto altre cose nella sua vita, il che contribuisce a quello che metti sul tavolo.
Un po’ come i grandi attori caratteristi del XX secolo, sono tutti attori che sono andati alla scuola con la G.I. Bill (programma di riabilitazione per veterani della seconda guerra mondiale o del vietnam n.d.r.). Sono persone che avevano delle vite prima di diventare famosi, e se porti qualcosa con te dalla realtà, normalmente diventi un migliore compositore, pittore, scrittore.
Penso abbia ancora molto davanti a sé, anche se per me a 55 anni probabilmente è ora di andare via. Non ho mai pensato alla mia vita musicale come una “carriera” che deve finire. È qualcosa che è successa, è giusto dire che ho partecipato al music business perché l’ho fatto. Però se fossi qui nel ‘77 o ‘78 starebbero facendo delle manifestazioni musicali spontanee e ci starei dentro.
Poi qualsiasi cosa stesse accadendo sul piano culturale, il punk rock era così divertente, innocente, immersivo. Ora si pensa al punk rock come uomini pieni di tatuaggi che suonano chitarre a tutto volume, ma non era così nel ’77. Erano amatori, nel senso più classico della parola. C’erano un sacco di strumenti diversi, anche sassofoni e cose così, ed era divertente.
Quando è uscito fuori il termine new-wave è stato perché hanno detto: “Senti, questa etichetta che abbiamo chiamato punk non sta vendendo. Ma se la compariamo al cinema new wave francese degli anni ’50, come Truffaut, potrebbe essere una mossa furba. Lo chiameremo New Wave”.
Questo cambiò tutto, ma io mi sento ancora nel punk rock old school.
Comunque nonstante tutti i dischi che ho fatto, mi sarebbe piaciuto scrivere più libri. Sono uno scrittore pigro, e questo nel rock’n’roll funzionava.
Mi sono divertito, ma avrei preferito fare quello che nella mia mente è considerato un modo più serio di scrivere.

A: Questo porta un po’ alla mia ultima domanda, che è: quali sono i tuoi piani per il futuro? Hai qualche progetto particolare in mente?

DS: Devo finire il secondo libro di Marlowe e devo fare un altro disco di Marlowe. Perché la trilogia è un concetto importante, di qualsiasi cosa tu stia parlando. Quindi ancora due libri di Marlowe, a cui do il nome a partire dal disco. Il primo è stato The Deliverance of Marlowe Billings, ora Marlowe’s Revenge e il prossimo penso che lo chiamerò The Unfortunate Demise of Marlowe Billings.

È molto difficile andare in tour. Dieci giorni fa ho suonato a Glastonbury e tutti mi hanno detto “Wow!” ma in realtà “There’s no there there”, come disse Gertrude Stein sull’Oakland.
Non c’è un modello su come continuare, l’aspetto economico del rock’n’roll è deplorevole.
Forse le cose cambieranno con gli algoritmi e lo streaming, ma ai vecchi tempi se scrivevi una canzone che tanta gente ascoltava e suonava in radio e vendevi i dischi potevi anche pagarti l’affitto, invece ora è molto dura.
Il sistema è sballato ed è triste. Ricordo che quando un grande artista decideva di far usare un suo pezzo in una pubblicità era una cosa grossa e parecchio negativa. Ora invece tutti cercano il product placement, o di stare in un film; i film sono una cosa diversa, ma anche per questo si veniva criticati. Ma ora è tutto nella cultura del consumo e questa è la sola cosa che paga.

Non posso tanto lamentarmi perché nella storia uno veniva pagato una sola volta: il ricco o il latifondista commissionava un ritratto o un poema e lo pagava. E questo non riflette quello che poi è successo con i diritti di copyright. Forse sono nato sbagliato. È un periodo strano quello attuale, che però è a vantaggio dei ragazzini, che possono decidere quali sono le regole, come nel punk rock.
Possono fare quello che vogliono, se poi ha senso è una questione a parte.

 

Foto di Francesco Salemme e Marco Catallo
Foto di Francesco Salemme e Marco Catallo

MGM – Sunny Days Gone By

Autore: MGM

Titolo Album: Sunny Days Gone By
Anno: 2016

Casa Discografica: Autoproduzione
Genere musicale: hard rock

Voto: 8
Tipo: CD

Sito web: www.facebook.com/mgm.rock/?fref=ts

Membri band:
Sebastiano Scittarelli: basso e voce
Peter Cornacchia: chitarra e voce
Fabrizio Musto: batteria e percussioni
Marco Capitanio: organo, piano, synth

Tracklist:
1. Magic Highway
2. Sometimes
3. Sunny Days Gone By
4. You Think It’s True
5. If You Don’t Fight
6. Plastic Soldier
7. Inside Lookin’ Out
8. Smokey Room

Prendi quattro grintosi musicisti del cassinate, la loro passione per il rock duro e puro di derivazione seventies, la loro volontà di far rivivere il sound sincero di quegli anni in inediti attuali e timeless al contempo e vedrai suonare davanti a te gli MGM. Attivi dal 2000, hanno conosciuto nel tempo solo una variazione nella line up quando nel 2008 Peter Cornacchia è subentrato ad Aurelio Gargiulo. Si sono fatti le ossa in sala prove ma soprattutto nei live, vera irrinunciabile location non solo della loro performance ma anche della loro crescita artistica, del loro stesso farsi arte. L’improvvisazione come etica musicale, il piacere di suonare e comunicare se stessi al pubblico, anche ristretto, anche magari poco avvezzo al genere proposto. Non la pretesa di scalare classifiche e ottenere consensi su vasta scala. Ma la volontà di regalare al proprio auditorio un’istantanea di se stessi e della passione che li anima. C’è una assoluta congruenza fra ciò che emerge da una mia breve intervista al chitarrista della band e ciò che è immediatamente palese all’ascolto. E’ come se i brani ti parlassero del processo creativo insito, dell’influenza di Hendrix, Led Zeppelin, Deep Purple, Pink Floyd, CSN, Black Sabbath, Santana, Jeff Beck e altri ancora. Influenze che però non si traducono mai in una copia, in un’esecuzione clone dell’originale. Anzi, c’è molta libera interpretazione, molto spazio alla sensibilità personale di ognuno dei quattro musicisti che, pur provenendo da un background simile, hanno poi naturalmente ognuno una propria personalità musicale fatta di ispirazione dai propri mostri sacri e abilità creativo-compositive autonome. Dunque ampio spazio a variazioni sui temi dei grandi dell’hard rock, variazioni e degenerazioni da cui poi scaturiscono veri e propri brani. E negli otto brani del loro primo full lenght tutto ciò è fortemente riscontrabile, anche ad un orecchio poco allenato a mio parere, tanto sincero è il loro sound e il modo di comunicarlo. Energia, potenza, impatto sono i tre aggettivi che mi vengono immediatamente in mente per descrivere i pezzi. Un potenza primitiva e sanguigna che si dipana per tutto l’album persino quando incontriamo una ballad. Sin dal primo brano, Magic Highway, veniamo trascinati in un vortice di sano rock’n’roll, veloce e di impatto che evidenzia, ad un certo punto del brano, delle armonie non convenzionali e non prevedibili frutto di una creatività spontanea. Il secondo brano, Sometimes, è costruito attorno ad un riff molto efficace. Tipico esempio di come una cellula minuscola possa poi ispirare il resto del brano strutturandolo di fatto. Il terzo brano è la ballad che è anche la title track, Sunny Days Gone By. Una malinconia limpida emerge all’ascolto, il gusto dolce ed amaro di qualcosa di bello ormai trascorso che lascia trasognati. Giorni pieni di sole ormai passati, appunto. Chissà perché la scelta di dare all’album il titolo di questo pezzo. Forse perché tutta quella energia primitiva che permea il disco aveva bisogno di essere incanalata nei meandri di un pezzo più rassicurante, più calmo, più riflessivo. Nelle note di una ballad dolce ma che è in grado di esprimere il tormento, l’impeto, l’emozione forte, sia essa positiva o negativa, che sono all’origine di ogni componimento musicale quasi meglio di pezzi più rock. E la chitarra, che ad un certo punto si infiamma in un assolo delicato ma deciso deviando dalla melodia principale, interpreta egregiamente questo mood. Con il quarto brano, You Think It’s True, veniamo riportati nel regno della potenza e del ritmo. Ancora un riff indovinatissimo da cui sgorga con nonchalance il resto del brano. Sembra quasi di vederlo il processo creativo degli MGM, tanto i brani ci comunicano spontaneità, improvvisazione, musica nel suo farsi. Ed è per questo motivo che sembra quasi di ascoltare un live album. I quattro musicisti sono riusciti a rendere in uno studio album il calore e l’energia libera e “schizofrenica” di una performance live. Abilità riscontrabile ai massimi livelli nel quinto brano, If You Don’t Fight. Batteria e basso a tutta. Sezione ritmica lanciatissima. Assoli di chitarra e organo infiammati. Il sesto brano, Plastic Soldier, trasuda forza e qualche concessione al funk. Il modo di cantare del cantante/bassista qui mi piace particolarmente. Ci sento dentro echi di Hendrix (Foxy Lady?) davvero trascinanti. Energia a profusione anche per il settimo brano, Inside Lookin’ Out. Anche qui grande voce. E’ come se il cantato del bassista abbia avuto per me un’evoluzione in termini di bravura lungo l’album. Nei pezzi finali davvero riesce a dare il meglio. Quasi come se venisse rispettato quel crescendo, quel pathos che sale, tipico di un live. Quando si parte decisi ma controllati e poi ci si scalda e si esplode nel corso della performance. Ed è un discorso che io applicherei anche agli altri strumenti in questo album. La forza e l’impeto da subito palesi si arricchiscono di calore e “umanità” di brano in brano. A chiudere il disco è Smokey Room. Brano interamente strumentale che sfocia nella jam. Molto spazio al synth. Toni più rilassati rispetto ai pezzi precedenti. Certo l’energia anche qui è tangibile ma è più tenue e latente, meno esplosiva. Nella mia ottica quasi una sorta di brano di “defaticamento”. Come per guidare l’auditorio verso la fine di un viaggio musicale che è stato adrenalinico e che ora lascia posto al silenzio. Dopo il dispiegamento di tante forze, ritmi e Sunny Days Gone Bybattiti accelerati da live il nostro cuore rock’n’roll ritrova la calma. Dopo l’ascolto dell’album la sensazione è di essere appena tornati da un concerto, con quel miscuglio di lasciti di energia e desiderio di assistere subito ad un altro.

Sara Fabrizi

Haken + Special Providence + Arkentype @ Legend Club (Milano, 6/6/16)

Vicino al club ci sono bambini che scorazzano e un bel giardino con poltroncine, gazebi, spillatori di Pilsener Urquell e una chitarra-vanga.IMG_20160606_202355

Trovo già gli Arkentype (Norvegia), primo gruppo di apertura, che si dà da fare sul palco, con il loro sound hardcore con qualcosa in più in ritmica e in djent.
Li seguono gli Special Providence (Budapest), con una formazione strumentale di chitarra, basso (corde a iosa per entrambi), batteria e organo/synth.
Quello che suona è quello che sentireste se i Polyphia e i Meshuggah uscissero a cena insieme. Continua a leggere Haken + Special Providence + Arkentype @ Legend Club (Milano, 6/6/16)

InterWaste – Winter Severity Index (Human Taxonomy, 2016)

“Human Taxonomy” è il secondo LP pubblicato a nome Winter Severity Index.

Uscito in questi giorni per i tipi di Manic Depression Records, è stato recentemente presentato in anteprima alla venticinquesima edizione del Wave-Gotik-Treffen di Lipsia, ricevendo una caldissima accoglienza di pubblico.

“Human Taxonomy” (tassonomia umana) nasce da una riflessione sulla pressante volontà classificatoria dell’essere umano, non solo nei confronti della realtà a lui circostante, ma anche di se stesso. L’uomo ridotto a una categoria, incasellato in un ruolo che deve necessariamente ricoprire per essere riconosciuto dalla società, vede sostituire la sua personalità con un modello precostituito, al quale sente in qualche modo di dover aderire, rivendicando, tuttavia, l’esigenza di differenziarsi da esso. Ma anche nel suo dichiararsi diverso, a volte, l’uomo incappa di nuovo in un gioco di maschere ed etichette dal quale è difficile liberarsi definitivamente. Ne consegue un senso di dolorosa alienazione dal suo essere più intimo, che rivendica, infine, la libertà di vivere nelle sfumature e nelle ambiguità.

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Giorni Usati di Michele Anelli

Autore: Michele Anelli

Titolo Album: Giorni Usati
Anno: 2016

Casa Discografica: Adesiva Discografica
Genere musicale: rock cantautorale

Voto:7
Tipo: CD

Sito web: http://www.micheleanelli.org/

Membri band:
Michele Anelli – voce, chitarra elettrica, chitarra acustica
Andrea Lentullo – piano elettrico, synth, organo, vocoder
Matteo Priori – contrabbasso
Stefano Bertolotti – batteria
Francesco Giorgio – corno, tromba
Gianluca Visalli – viola, violino
Caterina Cantoni – violoncello
Federica Diana – cori
Francesco Marchetti – cori

Tracklist:
1. Lavoro Senza Emozioni
2. Leader
3. Adele E Le Rose
4. Alice
5. Giulia
6. Gospel
7. Eco
8. Tu Sei Me
9. Cento Strade
10. Giorni Usati

Giorni Usati rappresenta la svolta cantautorale nella carriera di Michele Anelli. Per lungo tempo frontman, autore e cantante dei Groovers, qui si reinventa come cantastorie, menestrello dell’attualità. Dopo un passato da garage-punker con la sua band degli anni ’80, The Stolen Cars, e dopo una carriera ventennale con The Groovers, si reinventa solista. Dunque incontra il tastierista Andrea Lentullo, che fornisce terreno fertile alle sue idee, e il contrabbassista Matteo Priori che apporta un intenso groove determinando la fisicità ritmica anche grazie al lavoro di tre differenti batteristi che si alternano nei brani. Ne scaturisce Giorni Usati. Continua a leggere Giorni Usati di Michele Anelli

Collettivo Phthorà: Chi? Come? Quando? Perché?

Conosco il Collettivo Phthorà da un bel po’. Precisamente da quando non era ancora un collettivo e durante una jam session a casa di Luciano Cocco, si parlava di formare un gruppo di sperimentatori professionisti. I musicisti che ne fanno parte, Luciano appunto, Filippo, Francesco e Ivan, sono quanto di più interessante stia accadendo in questo periodo nella scena musicale di Frosinone.
Si dà il caso che i suddetti siano peraltro amici del sottoscritto, il che non vorrei inficiasse il peso delle mie parole, dato che la nostra amicizia non è che una delle conseguenze di un’affinità musicale e spirituale. Per questo ho deciso di raccontarvi in questo articolo un paio di cose, ovvero come è capitato di conoscerci e perché mercoledì 8 giugno, al Lebò Club di Frosinone, succederà qualcosa di molto importante (segnatevi questa data sull’agenda).
Cercherò di essere scherzosamente didascalico.
Quando ho conosciuto gli attuali membri del Collettivo Phthorà, questi non erano che un gruppo di prodotti umani del Conservatorio di Frosinone, in giro per la provincia, studenti appassionati di jazz, musicisti impegnati a diffondere la propria arte. Ho ascoltato la prima volta Ivan (Liuzzo), senza che ci conoscessimo, mentre suonava in un trio formato da batteria, basso elettrico e vibrafono (forse c’era anche un sax, forse quel sax era Danilo Raponi), e mi colpì soprattutto per una meravigliosa versione di “Naima”.
Luciano (Cocco) e Filippo (Ferrazzoli) invece, risalgono, nella mia memoria, a un momento di molto precedente, quando suonavano nei Coemme2 con Matteo Panetta. Devo al primo, per ragioni che non sto qui a spiegare, il mio ingresso in questa scena meravigliosa di giovani e folli jazzisti del frusinate, che idealmente mi ha portato fino alla scrittura di questo papello.
Francesco Abbate, invece, l’ho conosciuto per ultimo, una sera alla Cantina Mediterraneo. Di lui mi colpirono due cose: un silenzio misterioso e una giacca maestosa.
Questi quattro ragazzi hanno messo su qualcosa di veramente interessante dando vita al famigerato Collettivo Phthorà. Parlare solo di jazz sarebbe eccessivamente riduttivo, si tratta invece di un gruppo di musicisti dedicati alla contaminazione più completa, impegnati a sperimentare, a coinvolgere, a promuovere l’espressione.
L’invenzione più riuscita del Collettivo è stata quella di costruire un appuntamento fisso nel cuore di Frosinone, dove, ogni mercoledì, da alcuni mesi a questa parte, è stato possibile ascoltare, grazie a loro, un catalogo variegato di artisti e proposte, tale da farmi rimpiangere una mia pur breve permanenza nella Capitale. Al Lebò Club, che ormai è diventato uno dei centri nevralgici del discorso musicale della provincia, ho avuto così la fortuna di ascoltarli insieme al talentuoso rapper ADV (sul palco insieme all’altrettanto valido Mind), oppure impegnati con il batterista Stefano Costanzo, o ancora con Wound (googlate il tutto e capirete perché la parola jazz è riduttiva).
Mercoledì scorso, dopo averli lasciati per un po’, li ho ritrovati ad eseguire tre composizioni, in solo (in ordine: Filippo, Francesco e Ivan). È stato proprio chiacchierando con Ivan, dopo il concerto, che ho riacquistato la voglia di parlare della mia passione per la musica improvvisata e parte della colpa di questo fiume di parole è anche sua.
Veniamo ora al secondo punto. Il secondo punto è che mercoledì prossimo, 8 giugno, si chiude la stagione degli appuntamenti settimanali al Lebò, e non con un evento qualsiasi.
Il Collettivo, in formazione larghissima (insieme a Stefano Costanzo e Ron Grieco), suonerà insieme a Lisa Mezzacappa, jazzista americana (di San Francisco), tra le figure di spicco della scena contemporanea americana. Non so come abbiano fatto ma sono felice con loro di questo risultato, avendoli seguiti fin dagli esordi di questa tortuosa ricerca.
Ho scritto tutto l’articolo per dire una ed una sola cosa: questo evento è imperdibile. E detto da un cinico, diffidente, scettico come me è tutto dire. A Frosinone, al Lebò, sta per succedere qualcosa di storico. E non dobbiamo perdercelo per nessuna ragione al mondo.

Per maggiori informazioni: https://www.facebook.com/events/1091963170849991/

P. S. : Sarà presente anche l’autore dell’articolo, opportunamente munito di prevendita.

The Claypool Lennon Delirium – Monolith of Phobos

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Cosa succede quando si mettono insieme Sean Lennon (figlio di John Lennon e Yoko Ono) e Les Claypool (dei Primus)?
Psichedelia.

E infatti è quello che troviamo a pacchi in questo album frutto di una collaborazione già mostrata in un tour di oltre 30 date negli USA.
Tra ragazze da ossicodone e viaggi Ohmerici, con una composizione liristicamente tendente al narrativo e musicalmente piena di belle trovate l’album è una collezione di pezzi interessanti.

Pezzi come Bubbles Burst e Oxycontine Girl sono tipicamente psichedelico-cantautoriali, simili allo stile Lennon, mentre altri brani come Breath of a Salesman fanno uscire il Claypool che tutti amiamo. I due stili si mixano bene anche nello scorrere dello stesso brano, come in Captain Lariat, mentre si fondono in un prodotto totalmente inedito e progressivo nei pezzi di apertura come il singolo in due movimenti Cricket and the Genie e la title track.
There’s no Underwear in Space strizza quasi l’occhio ai Tame Impala e allo space rock.

Insomma, ci voleva la sinergia di due nomi “importanti” per tirare fuori una psichedelia sana e commestibile nel 2016, mettendo a segno un album figlio della storia moderna della musica psichedelica, rock e non.

 

Shawn Lee’s Ping Pong Orchestra – Voices and Choices (2007)

Ci ritroviamo ancora una volta sul blog a parlare di un gruppo particolare;

questa volta peró non si tratta di un qualcosa di microsconosciuto, bensì di Shawn Lee’s Ping Pong Orchestra, il cui fondatore, Shawn Lee, è un polistrumentista americano pluripremiato in ambito di colonne sonore in attività dal 1993.

Tra i suoi lavori in ambito cinematografico possiamo trovare Ocean Thirteen, CSI: Miami e Lost, mentre in ambito videoludico si è fatto notare con Bully, gioco della Rockstar del 2006 e con un suo brano contenuto all’interno di questo album in Tales From the Borderlands, ennesimo capolavoro della Telltale Games.

Non affronterò una recensione pezzo per pezzo, ma parlerò in generale dei pezzi che mi hanno attirato di più.

Kiss the sky è un pezzone, togliamoci subito il dente. La canzone che mi ha attirato di più giocando a Tales From the Borderlands resta sempre interessante, voce perfetta per l’adattamento strumentale, seconda voce di Shawn Lee in falsetto.

Il secondo pezzo degno di nota dal punto di vista vocale è Francoise Hardy, cantato da Jacques Brel, con l’alternanza di sonorità antiche come archi e voce calda francese al beat moderno.

Subito dopo Glass Act mi dà l’idea di una hall di un albergo futuristico, lasciando posto all’atmosfera quasi caraibica di Perculator.

The Hour Glass Effect non mi piace, non preferendo il rap ma comunque ha una buona base che si lascia ascoltare. JW sembra un pò dream pop unito a momenti di chitarra spagnoleggiante.

Changing Times è un pezzo parecchio bizzarro: si tratta di una rivisitazione della colonna sonora di Mission Impossible nella quale la parte del basso è eseguita dalla voce incerta del cantante, insieme a coretti e ad un arrangiamento da sala, in pieno stile Richard Cheese.

L’album termina con Jawbreaker, brano post-rock elettronico della durata di 5 minuti.

Nel complesso consiglio l’acquisto e l’ascolto a tutti gli amanti del post-rock e di musica ambient, ma anche a coloro che amano cose strane e particolari;

in ogni caso con Kiss the Sky dovreste andare sul sicuro, quindi correte ad ascoltarlo e poi, se vi piace, preparatevi al resto dello strano album!

 

Giorgieness – La giusta distanza (2016)

Come promesso, dopo aver “recensito” Noianess passo all’ascolto di La giusta distanza, sempre di Giorgieness.

Senza perdermi in chiacchiere vi rimando alla mia recensione precedente che si ricollega perfettamente a questo album attraverso la prima traccia:

Sai parlare; Si comincia subito con una nostra “vecchia” conoscenza, in una versione piú “sporca” e interessante, con varie pause, momenti di accelerazione rock e cambi di ritmo che ci introducono al secondo pezzo, K2. In piú di un’occasione mi sono ritrovato a canticchiare mentalmente il ritornello. Sui due minuti e 50 vengo sorpreso dalla voce della cantante, in grado di ricollegare perfettamente due momenti del pezzo ad una prima impressione scorrelati.

Il presidente mi sorprende per il ritmo martellante che si respira fin dal primo momento e per la tematica potere/uso dello stesso.

giorgieness2016 Continua a leggere Giorgieness – La giusta distanza (2016)

COSMO’S FACTORY – CREEDENCE CLEARWATER REVIVAL

Autore: Creedence Clearwater Revival

Titolo Album: Cosmo’s Factory
Anno: 1970

Casa Discografica: Fantasy Records
Genere musicale: rock

Voto: 10
Tipo: LP

Sito web: http://www.creedence-online.net/
Membri band:
John Fogerty – chitarra, piano, sassofono, voce
Tom Fogerty – chitarra ritmica
Doug Clifford – batteria
Stu Cook – basso

Tracklist:
1. Ramble Tamble
2. Before You Accuse Me
3. Travelin’ Band
4. Ooby Dooby
5. Lookin’ Out My Back Door
6. Run Through The Jungle
7. Up Around The Bend
8. My Baby Left Me
9. Who’ll Stop The Rain
10. I Heard It Through The Grapevine
11. Long As I Can See The Light

Cosmo’s Factory è il quinto album targato CCR, e ne rappresenta la summa. Tra tutti gli album è il più vario ed enciclopedico per la sua attitudine a svelare tutte le svariate influenze della band. Vera e propria sintesi della loro arte, del loro modo di essere rock e di forgiarlo pescando a piene mani nel passato per creare qualcosa di inedito. Un album che arriva nel 1970, ossia un anno dopo il memorabilis 1969 che vide la fortunatissima trilogia Bayou Country, Green River e Willie And The Poor Boys. Continua a leggere COSMO’S FACTORY – CREEDENCE CLEARWATER REVIVAL