Eccomi al consueto appuntamento con i miei album preferiti per il 2016 (approfitto per invitarvi a rispolverare le versioni 2015 e 2014).
Non si tratta di una classifica ma di una raccolta in ordine sparso.
Il jazz è sempre una storia dell’ossessione per la libertà. Jazz è sempre dalla parte di chi è contro tutti, jazz è una parola sempre sporca, sempre bastarda ed è questa la sua magia. È dalla sofferenza, dall’essere una stradina senza alternative e quindi con infinite alternative che il jazz trae la sua magia.
Di questo lato oscuro, genetico, lunare del jazz discutevo giorni fa col mio amico M. che qui non cito ma che ringrazio per tutti gli spunti interessanti che vengono dalle nostre chiacchierate musicali. Si parlava nello specifico di Micheal Bublé, che arriva ogni Natale come esempio didattico di swing ed è da lì che comincia la mia necessità di scrivere questo articolo.
Natale, Bublé, capitalismo sfrenato: un’equazione che, trasportata nel campo di cosa è o non è jazz, rischierebbe di risolversi nell’esposizione di un comodino Ikea in un salotto Luigi XIV.
Natale e jazz è un binomio che merita ben altra considerazione ed è per questo che ho deciso di spargere di seguito una serie di brani che per me rappresentano il jazz: dunque chi li ha suonati: infine il Natale.
Partiamo con questa versione di Santa Claus is Coming to Town di Bill Evans: qualcosa da cui si potrebbe iniziare a spiegare il jazz alle scolaresche. Un brano teoricamente felice, gioioso, immediato: un tema allegrotto da fischiettare sotto la doccia. Quando tutto questo passa attraverso la maglia del tormento, della natura così timidamente clumsy dell’occhialuto Bill Evans, il pezzo si trasforma in una serie di fioriture imprevedibile, di salti, di problemi musicali da risolvere, che ci trasportano, attraverso un brano forse scontato, dentro il mondo emotivo di Bill Evans, lo stesso di cose come Waltz for Debbie. Sì, lo sto pensando: che bello il jazz.
Esatto, è lo stesso brano. Ma cambia praticamente tutto, titolo a parte.
Tiro fuori quest’album a Natali alterni e ve lo consiglio se volete fare colpo su qualcuno. Lo stesso brano che avete ascoltato sopra, ingioiellato come il decolté di un’ereditiera who’s puttin’ on the Ritz, dal talento puro e sfavillante di Ella Fitzgerald. Un fiume in piena di bravura senza freno, che parla di un Natale che almeno tutti abbiamo sognato una volta nella vita, un Natale che assomiglia un po’ al Capodanno e se il Capodanno è quello di cinquant’anni fa, amen.
Dite Ciao al Vibrafono. Qui ascoltiamo Oscar Peterson, un jazz pieno di swing e con centinaia di code catchy e accenti blues: una lunga serie di ammiccamenti che stenderebbero al tappeto anche il più freddo nemico del Natale. Da far ascoltare a quell’amico che odia sia il jazz (perché crede che il jazz sia Micheal Bublé oppure solo lo swing, oppure Kenny G, oppure la roba che si sente negli ascensori, ma il quel caso non c’è altra cura di un ascolto alternato di A kind of Blue e Time Out) sia il Natale. Ascoltare un brano ed essere seduto in un night di Chicago una sera tra Natale e Capodanno, in un tempo imprecisato del passato, bloccati dalla tormenta ma felici.
Perché il Natale è prima di tutto uno stato d’animo.
Buon Natale e sempre viva il jazz, per tutto quello che questa parola sarà mai capace di rappresentare.
Questa etichetta di Sydney merita davvero una menzione sul nostro blog.
Molti degli artisti nel suo roster sono stati seguiti dal buon Marco (come gli Slimey Things ) e molti sono stati inseriti nella nostra playlist dedicata a free jazz & co on air ogni Venerdì di Dicembre alle 17 (Mister Ott, Kurushimi).
In questa reviewaste (vi sarete accorti di quanto waste siano le recensioni di questo blog) voglio superficialmente scoprire le band in esso contenute.
Andando non in ordine di tracklist ma per macrogeneri (l’etichetta ne ingloba diversi) partirei dal jazz: i Kurushimi fanno un free jazz contemporaneo e molto interessante, ispirato al giappone (e forse alle sue stranezze), mentre i Mister Ott producono un prezioso ethio-jazz con qualcosina di moderno in più rispetto al maestro Mulatu Astatke.
Passando ai suoni più metallici, nella selezione ci sono i Fat Guy Wears Mystic Wolf Shirt (di cui abbiamo una diapositiva) che fanno un post-hc che raramente è così attraente dopo i migliori The Fall Of Troy e The Dillinger Escape Plan, ed i più aggro Diploid che percorrono invece la strada più sporca verso un extreme metal scatenato e feroce.
Li seguono i NO HAVEN con un crust/post-metal che stimola molto ad approfondire il loro sound e i Siberian Hell Sounds, su un crust più blackened e straziante.
Gli Hashshashin sono invece più dediti allo stoner e nel brano selezionato, Immolation, danno mostra al meglio della loro abilità nell’inserire suoni orientaleggianti in fraseggi complessi. In altri brani ricodano alcune sperimentazioni di Six Organs Of Admittance (ne abbiamo parlato nella puntata 5×13 ).
Gli Slimey Things si accollano il genere più Pattoniano della selezione con Versus Mode, ispirazione fruttuosa e ben riuscita.
A intermezzo e a chiusura dell’album ci sono due brani decisamente più distesi, rispettivamente di Hinterlandt e Wartime Sweethearts. I primi sognanti (Chase a Dream) con fiati e violino e con una ben apprezzabile composizione musicale, i secondi melodici (Tunng, brit) tutt’altro che banali e molto piacevoli.
Complimenti vivissimi alla label che non ha sbagliato un colpo in questo sampler 2016 e che continueremo a seguire.
L’italiano è importante. Ascoltando questo album capisco perché il true norwegian black metal è quasi sempre in norvegese. Per quanto sia vero che l’inglese è più universale, le parole hanno un altro peso in madrelingua.
Questo album è post black metal, con un continuo eloquio nichilista e con lo sguardo orgogliosamente vacuamente rivolto in avanti.
È profondo, in prima persona, esplora la condizione umana nichilista in un modo probabilmente unico, almeno nel suo genere.
La vita con la violenza umana, la psicologia del coraggio e della vergogna, della prospettiva sul vuoto.
La struttura stessa dell’album è interessante: i brani sono echi (I, II, III etc). Come dice il titolo questi brani sono suoni buttati nell’abisso, e che tornano a noi come echi.
Perfetta metafora musicale dell’aforisma nichilista “E se tu scruterai a lungo in un abisso, anche l’abisso scruterà dentro di te”.
Verso preferito:
Dissipata la luce
che da forma alle idee
l’anima ne intuisce l’essenza
l’estasi del mistico
gnosi di essere l’uno con il tutto
l’essere il nulla