Rimanere Lucidi: il primo EP dei Florio’s

Autore: Florio’s

Titolo Album: Rimanere Lucidi

Anno: 2015

Casa Discografica: Autoproduzione

Genere musicale: Rock

Voto: 8

Tipo: EP

Sito web: http://www.floriosband.it/

Membri band:
Valeria Maria Pucci – voce
Marco Nardone – chitarra
Davide Pascarella – basso
Riccardo Bianchi – batteria e percussioni

Tracklist:
1. Ho Sbagliato Tutto
2. Non Solo Tu
3. Dove
4. Vacanze Romane
5. Telo Blu

Rimanere Lucidi è il primo EP dei Florio’s, rock band del basso Lazio (Cassino) che, partendo da un’attività di cover e reinterpetazione in chiave rock di noti brani italiani anni ’60 e ’70, è approdata a sfornare propri inediti. Un disco tutto loro. Composto, arrangiato, suonato e registrato da 3 giovani musicisti ed una giovanissima cantante. Un bel punto di arrivo che ha a monte un alacre lavoro di rivisitazione e personalizzazione di classici italiani (iniziato nel 2011) e di partecipazione a contest musicali con annesse vittorie. Nel novembre 2014 vincono l’8° rassegna musicale ADSU al Teatro Ridotto de L’Aquila, mentre a maggio 2015 arriva la vittoria nella 1° edizione dell’Industrie Sonore Contest. E’ soprattutto nei live, con cui letteralmente invadono tutto il basso Lazio, che i Florio’s si formano le ossa. E dei live fanno proprio quel desiderio di immediatezza musicale priva di sovraincisioni. Caratteristica che cercano di rendere anche nella registrazione in studio, atta appunto a riprodurre la spontaneità artistica della performance dal vivo. E tale freschezza musicale emerge con forza all’ascolto dei 5 brani che costituiscono l’EP. Quattro inediti e una cover che sprigionano tanta energia rock e tematiche di tormento e disincanto. Un rock acido, a tratti impudente ed arrabbiato, che scuote l’ascoltatore catturato dai ritmi incalzanti e dalla voce pulita e suadente della cantante. La prima traccia dell’EP è Ho Sbagliato Tutto. Titolo che la dice lunga sul senso di dubbio e tormento che pervade un po’ tutto l’album. In un contesto di incertezza e sbagli, sempre in agguato nelle relazioni con gli altri, l’invito è quello di “rimanere lucidi”. Un brano dunque che si pone un po’ come manifesto programmatico dell’intero EP. Un pezzo veloce, un ritmo vivace, a tratti cupo, che si sposa perfettamente con il testo. Il secondo pezzo è Non Solo Tu. Energia e ritmo incalzante dalle prime battute. Un rock delicatamente duro che veicola ancora tormenti, frustrazioni, consapevolezze amare e personali rese. Rese appunto, ma mai capitolazioni. L’amarezza dei propri sbagli è sempre controbilanciata da un desiderio di energico riscatto. La terza traccia è Dove. Un incipit dal gusto punk rock. Veloce, martellante, lascia quasi subito spazio alla voce che, acuta e suadente, quasi urlando ci parla di amore. Di un amore perduto e perso di vista. Una fiamma che non brucia più e che si invoca, per un ritorno forse. Il tormento amoroso in questo brano trova nella parte strumentale un catalizzatore e una valvola di sfogo al contempo. Quindi giungiamo alla quarta traccia che è una cover. Vacanze Romane. Un rifacimento molto rock e molto raffinato del celebre brano dei Matia Bazar. Qui la voce dispiega tutte le sue potenzialità. Un incipit che cattura e trascina verso l’acuto della bravissima cantante che non ci fa rimpiangere per niente Antonella Ruggiero. Ne segue un andamento a tratti dolcemente sognante, a tratti decisamente rock. Bella questa scelta di inserire questa cover, quasi a voler smorzare un po’ i toni tormentati degli inediti. Quasi a voler portare una ventata di freschezza e relax in un contesto più acido. Una trovata schizofrenica, ma molto efficace. Arriviamo dunque al pezzo conclusivo, Telo Blu. Il brano inizia con la voce in primo piano rispetto alla parte strumentale. Riflessioni su una relazione d’amore. Qui si coglie però un senso di maggiore rilassatezza, una maggiore presa di coscienza che porta ad un accettazione più serena delle cose. Anche se il tema del dolore, della solitudine, del vuoto lasciato da un amore finito è sempre presente. Ciò che cambia, l’evoluzione rispetto al tormento dei brani iniziali, è il sentimento di riscatto e rinascita. La voglia di superare tutto questo, di innamorarsi ancora, di farcela senza di lui. Verso la fine del brano, supportata da un sound più cupo, la propositività si alterna al ricordo naturalmente amaro di un amore finito male. “vorrei vederti piangere, vorrei vederti ridere..di noi” Che dire? E’ un album che invade lo spazio acustico ed emozionale dell’ascoltatore, trasportandolo in un contesto a tratti amaro e disincantato, a tratti energicamente propositivo. Sempre profondo, mai patetico. E mi pare di capire che questo per i Florio’s sia solo l’inizio.

Sara Fabrizi

Enisum – Arpitanian Lands / Tundra – The Burning Fanatism (2015)

Split reviewaste per due bellissimi album tutti italiani del cosiddetto Atmospheric Black Metal o, come preferisco, post-black metal.

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È dalle Terre Arpitane che vengono gli Enisum, che inseriscono come luogo di provenienza la Val di Susa.
In questa dedica alle loro terre ci ho voluto leggere anche una posizione nelle contestazioni NoTAV, ma forse mi sbaglio.
Fatto sta che l’album è fantastico, evocativo, ben prodotto, scorrevole. In qualche modo risente del folk black. Il ritmo si rilassa e le chitarre si alleggeriscono di tanto in tanto lasciando spazio di manovra allo scream e al sound più forte.
Fauna’s souls con soave voce femminile al centro dell’album è una perla.

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La lineup di questo album comprende anche musicisti d’impatto della scena europea di questo genere.
Suona sfrenato, violento e senza scrupoli questo album, come il fanatismo bruciante che anima il corpo di un uomo.

 Sentire la tua presenza in ogni momento
vedere il tuo sguardo su di me in ogni momento
i tuoi occhi che mi spiano dal vuoto della tua vita schifosa
una sensazione insopportabile attraversa il mio corpo
non so resistere, non so resistere

I miei occhi iniettati di sangue e odio
bruciano la tua carne
le mie mani strappano a brandelli
quel poco cervello che ti è rimasto
e come un fanatico, guidato dall’estro eccessivo
con follia affiguro la tua ultima cena
e tu non esisti
e tu non esisti più

Tutte le strade portano a Miles

Ci ho provato. Mi sono allontanato dalla musica improvvisata nel tentativo di parlare d’altro: è stato così e non escludo lo sia anche in futuro. Ma il jazz è proprio la musica contro cui vado a sbattere continuamente, per tutta una serie di ragioni molto divertenti.
Per questo ho deciso di raccontarvi da dove viene questa mia strana passione. Tutto è cominciato con un disco abbastanza famoso che mi capitò fra le mani dopo mesi di ascolto compulsivo di American Idiot dei Green Day. Nel 2005 c’era ancora MTV e questo passava il convento se non volevi suicidarti prematuramente dopo aver guardato il video di The Reason degli Hoobastank. American Idiot lo consumai, arrivando a solfeggiare perfettamente Jesus of Suburbia. Si tratta di un album che ho amato, di un amore acerbo e adolescenziale. Poi però si insinuò in me quella curiosità per le cose complicate (e spesso inutilmente tali) che mi avrebbe accompagnato più o meno continuativamente per alcuni anni. Credo di essere passato al jazz anche perché in quel periodo mi era capitato di ascoltare roba prog italiana (Storia di un Minuto della Pfm, Crac! degli Area, per esempio), fatto sta che un giorno, nel mio stereo, mentre fuori dalla finestra impazzava la guerra in Iraq e Million Dollar Baby era il film dell’anno, andò a finire il celeberrimo Time Out del Dave Brubeck Quartet.
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RECENSIONE TERZO ALBUM DEI CREEDENCE CLEARWATER REVIVAL

Autore: Creedence Clearwater Revival

Titolo Album: Green River

Anno: 1969

Casa Discografica: Fantasy Records

Genere musicale: Rock

Voto: 9

Tipo: LP

Sito web: http://www.creedence-online.net/

Membri band:
John Fogerty – voce, chitarra, sax tenore, armonica a bocca, tastiere
Tom Fogerty – chitarra, voce
Stu Cook – basso
Douglas “Cosmo” Clifford– batteria, voce

green riverTracklist:
1. Green River
2. Commotion
3. Tombstone Shadow
4. Wrote A Song For Everyone
5. Bad Moon Rising
6. Lodi
7. Cross-Tie Walker
8. Sinister Purpose
9. The Night Time Is The Right Time

La terza fatica dei mitici CCR è l’album della consacrazione? Si può parlare di un album della consacrazione per una band che dal primo disco non ha avuto una pecca? Che ha scalato i vertici delle classifiche portando il blues nella sua dimensione più rock ed accessibile? Forse no, ma di sicuro ogni album in più rappresenta un’ulteriore conferma di un vero e proprio fenomeno. Il prolifico John Fogerty, autore di quasi tutti i brani, non sbaglia un colpo, rafforzando la sua innegabile leadership. Continua il percorso che rappresentò un pò la “mission” dei CCR, ossia l’affrancamento dal continuum blues per approdare ad un rock minimale ma di impatto. Anche se, come già visto in precedenza, le blues roots non verranno perse mai. Si trasformeranno semmai, rimanendo sullo sfondo. Come a dire che tutto nasce dal blues, e al blues ritorna. Green River, questo il titolo dell’album. Pare che il nome si ispirasse ad una bevanda piuttosto in voga fra i giovani di El Cerrito. Il pezzo di apertura è quello che dà il nome all’album, Green River appunto. Vero e proprio capolavoro, come già nei 2 album precedenti l’apertura è sempre col botto. Radici blues ben salde qui. E un “chitarrismo” surreale, evocante psichedelia, che si trova naturalmente molto a suo agio nell’anno 1969. Una canzone azzeccatissima per il periodo. Trascinante e leggermente estraniante. Il secondo brano è Commotion. Dalla prima battuta risulta subito evidente la natura hard blues del pezzo. Potrebbe appartenere all’Hendrix più psichedelico e schizofrenico, per come è suonato. Il finale è forte, con un potente rullo di batteria che chiude il brano in maniera secca. Il terzo pezzo è Tombstone Shadow. Tipico brano da garage-band. La sua forma sincopata rivela la somiglianza con i Cream di Clapton. Un ibrido che mi azzarderei a definire garage blues. Incalzante. Il quarto brano è una ballad. Wrote A Song For Everyone. Probabilmente una delle serenate folk più belle che siano mai state composte. Un brano che trasuda pathos, passione. La vena romantica di Fogerty qui fluisce libera. C’è un andamento dolce, scandito da una batteria che ci accompagna delicatamente in un mondo ideale fatto di empatia, amore, pace. Ballad che più “ballad” non si può. Pensiamo a quanto Springsteen sia debitore a canzoni del genere. Il quinto brano è uno dei più stranoti della ditta Creedence. Bad Moon Rising. Semplicemente folk. Woody Guthrie è qui, ma con meno retorica e più realismo. Pezzi come questo rivelano l’impegno socio-politico dei CCR (quasi imprescindibile all’epoca). Impegno velato, ma sempre presente, anche se non raggiungerà mai i forti toni di denuncia della migliore tradizione folk americana di Guthrie and co. E sempre nell’alveo dell’impegno restiamo con il sesto brano, Lodi. Un classico rock’n’roll di matrice operaia che di sicuro ha fornito ottimi spunti sia a Springsteen che ad altri folksingers a seguire. Il settimo brano è Cross-Tie Walker. Qui assistiamo al tentativo di coniugare generi diversi ma affini come il country e il folk su una base rock’n’roll semplice ed elementare. Un pezzo dal sapore più “antico”, che affonda in quel rock pregresso spesso definito come “rock delle praterie”, quindi Buffalo Springfield e The Byrds essenzialmente. L’ottavo brano è Sinister Purpose. Una splendida cavalcata dal sapore quasi hard rock, con una progressione incalzante e a tratti claustrofobica ed estraniante. Se ce la immaginassimo più esasperata, cupa ed enfatica potrebbe benissimo essere un pezzo dei Black Sabbath. Brano bellissimo, potente. A chiudere l’album è una cover. The Night Time Is The Right Time. Classico del soul targato Brown/ Cadena/ Herman. Già proposto da Ray Charles nel decennio precedente, qui viene reinterpretato con un ritmo trascinante, con un piglio rhythm’n’blues da Rolling Stones. Niente altro da aggiungere su un album che, forte di una formula ormai consolidata, non presenta una sbavatura. E che, forte dell’atmosfera del ’69 fatta di tours, festivals e soprattutto Woodstock, manda sempre più in orbita la band di John Fogerty.

Sara Fabrizi

Top 10 Albums 2015 (Manuel edition)

Come l’anno scorso e l’anno prima. Non è una classifica ma album in ordine sparso pubblicati nel 2015 e che hanno particolarmente colpito Manuel.

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Interwaste – Astolfo Sulla Luna ( Ψ², 2015)

a4240133819_10“Ci siamo persi girando in tondo, ma in realtà le nostre orbite non erano tonde né ellittiche. E la realtà era un’illusione. E l’orbita non è più un’orbita costante se il centro o i fuochi variano. E non essere non è il contrario di essere. E se non puoi parlare di parole usando le parole stesse inizi a ragionare per probabilità. Quanto è densa la probabilità che adesso stiamo pensando la stessa cosa? Se la tocco per scoprirlo esercito pressione e la densità aumenta. Errori sistematici, errori strumentali, errori fisiologici, errori di parallasse. In ogni tentativo di misurazione è insito l’errore. Infinite misurazioni implicano infiniti errori ed oltre. Se tu vuoi sapere dove stare e io quando sarò dove voglio essere, ci siamo già persi. Prima di accorgerci di non risuonare più alla stessa frequenza e annullarci per interferenza.
Ostinarsi alla ricerca e, dopo lo scontro con la consapevolezza dell’indeterminazione, il sollievo della consapevolezza dell’indeterminazione.
Applicare l’arte della combinatoria alla teoria degli errori casuali.
Anagrammare il processo cognitivo.
Permutare l’algoritmo antropico.
Per trovare vie di fuga dall’immaginario collettivo.”

“Questo è Ψ², quello che c’è dentro e il rumore che ne deriva, a tratti uguale a quello del mare, altre volte a quello dell’insistente ticchettio dell’orologio, altre a quello del fischio alle orecchie prima di chiudere gli occhi.”

 

Collective Waste : Astolfo venne incaricato da Dio di andare sulla Luna, luogo in cui si trova tutto ciò che sulla Terra è andato perso, per recuperare il senno dell’Orlando folle. Voi cosa state cercando?
FRA: Di complicarci la vita
LIA: La felicità e un synth
GIANLUCA: probabilmente qualcosa che non esiste e di cui ho un’immagine solo confusa

A quanto è uguale phi quadro? 2A cos(pi/2) è un’onda sinusoidale? Siete convinti dell’incompletezza dei sistemi formali? Insomma, perché tutta questa matematica?
FRA: Per complicarci la vita
LIA: Non ho capito la domanda, al liceo in matematica prendevo sempre 2
GIANLUCA: La matematica spiega molti aspetti della realtà, ma ti confessiamo che alla fine anche noi non siamo riusciti a comprenderli del tutto.

I testi urlano quella poesia tra la verità e il delirio, mentre la musica è acida, jazzcore. Gli Zu che parlano. Come si è creato questo insieme?
FRA: Le nostre vite erano troppo poco complicate
LIA : Dato che il nome Zu era già in uso abbiamo dovuto optare per Astolfo.
GIANLUCA: La cosa buffa è che all’inizio cercavamo un cantante… Poi solo dopo le prime bozze strumentali, è venuto fuori questo mix al quale, dopo un po’, abbiamo finito per affezionarci.

Alcuni brani sembrano avere citazioni cinematografiche, tra le quali “La Notte” di Antonioni. Vi va di spiegarle?
FRA: Troppo semplice questa domanda
LIA: Mi piacciono i film intellettualoidi colti in bianco e nero e coi colori sbiaditi, adoro antonioni.
GIANLUCA: Di solito i nostri pezzi nascono da cose che non hanno a che fare con la musica. A volte anche scene di film. E’ più difficile spiegarlo che realizzarlo… E ti assicuro che realizzarlo non è facile.

Mi ha colpito il vostro scrivere che l’approccio alla composizione è simile a quello dell’opera classica. In che modo?
FRA: Questa è la parte complicata
LIA: Questa domanda è troppo difficile ma generalmente io maltratto gli altri due del gruppo.
GIANLUCA: Le idee di partenza le sviluppiamo in maniera molto umorale e soprattutto senza preoccuparci troppo della forma canzone. Nella musica classica io ci ho sempre visto qualcosa del genere.

Ok, grazie ragazzi. Ultima domanda: vi sentite, come musicisti in qualche modo, un po’ scarti collettivi?
Il musicista è uno scarto collettivo, ma uno scarto collettivo per scelta.

Cortometraggio – Sbüssen

“Proviamo  a girare un corto?”

“Ma ti droghi?”

Nacque più o meno così  il nostro progetto, in un bar, 4/5 ragazzi stanchi della monotonia del paesello.

“Perché no?”

Gli interrogativi erano molti, forse troppi.

“Chi lo scrive? Con cosa lo giriamo? Il montaggio? Gli attori? Saremo in grado?”

“Il collettivo ce la farà.”

Siamo stati ambiziosi, forse troppo, ma da qualche parte bisogna pur partire. Il lavoro di documentazione e scrittura è stato lungo e difficoltoso, pur scegliendo uno stile narrativo non lineare e concentrandoci sulla ricerca di uno stile registico ben delineato e distinguibile, anche grazie alla scelta di stesura di uno storyboard.

Il nostro progetto è stato avvalorato anche dall’aiuto di alcuni musicisti della zona (Dola J. Chaplin, Emilio Quaglieri) che ci hanno permesso di far fare un ulteriore salto di qualità al corto.

Vorremmo ringraziare sentitamente i nostri attori (Tullio, Barbara, Valentina, Emilio, Joe e Ilaria) che ci hanno supportato nonostante i nostri limiti, un altro sentito ringraziamento va alle varie attività che hanno permesso la realizzazione del corto (Marsella Foto/Video, Artrock Cafè, Bibliotè).

Il collettivo non si ferma, abbiamo in lavorazione una seconda sceneggiatura tratta da un racconto, speriamo di proporvela al più presto.

“Cosa significa Sbüssen?”

“Questa domanda è proprio Sbüssen”

 

 

RECENSIONE SECONDO ALBUM DEI CREEDENCE CLEARWATER REVIVAL

Autore: Creedence Clearwater Revival

Titolo Album: Born On The Bayou

Anno: 1969

Casa Discografica: Fantasy Records

Genere musicale: Rock

Voto: 9

Tipo: LP

Sito web: http://www.creedence-online.net/

Membri band:
John Fogerty – voce, chitarra, sax tenore, armonica a bocca, tastiere
Tom Fogerty – chitarra, voce
Stu Cook – basso
Douglas “Cosmo” Clifford– batteria, voce

Tracklist:
1. Born On The Bayou
2. Bootleg
3. Graveyard Train
4. Good Golly Miss Molly
5. Penthouse Pauper
6. Proud Mary
7. Keep On Chooglin

Dopo il primo album, quello omonimo, che lancia e consacra i CCR, arriva Born On The Bayou che consolida e radica la loro presenza sulla scena del Rock. Messi apparentemente in sordina (ma mai abbandonati!) i toni prevalentemente blues degli esordi, è qui che avviene di fatto l’emancipazione dal continuum blues e l’approdo alla forma minimale chitarra-basso-batteria. Ossia la forma che inventa il loro Rock: semplice, essenziale, eterno. E il compimento di questa “rivoluzione” e crescita musicale assume le sembianze di un deciso country-folk rock. 7 brani, durata totale di poco più di mezz’ora, un concentrato di sano rock che vede stavolta soltanto una cover e per il resto alcune indiscusse pietre miliari. Il primo brano è quello che dà il titolo all’album, Born On The Bayou. Oltre 5 poderosi minuti sul territorio di confine fra soul e blues. Un vero e proprio trip sul Delta del Mississipi che lascia spazio a volumi e riff quasi da hard rock ante licteram. Potentissimo. Un album che si apre così non può che promettere bene. Quindi passiamo al secondo pezzo, Bootleg. E’ il pezzo più breve dell’album, poco più di 3 minuti. Un boogie veloce e ritmato in cui la chitarra acustica la fa da padrone, come nella migliore tradizione blues. Sempre questo blues, da cui i CCR si emancipano e ritornano al contempo, reinventandolo in una chiave rock accessibile a tutti. Vero e proprio leit motiv della loro produzione musicale. Il terzo brano è Graveyard Train. Una lunga cavalcata blues, più di 8 minuti. Chiudiamo gli occhi e arriviamo dritti al Delta del Mississipi, tra paludi e voodoo. Qui l’anima nera di Fogerty viene fuori come poche altre volte. Pezzo scuro ed oscuro, a tratti ipnotico, con un basso e un’armonica che ti si infilano nel cervello in maniera ossessiva. Ascoltare un brano del genere diventa sempre un’operazione multisensoriale, non si ascolta semplicemente..,si immagina in maniera iperrealistica e si viaggia! Il quarto pezzo rappresenta l’unica cover presente. Good Golly Miss Molly. Chissà cosa avrà pensato Little Richard nel sentire riarrangiare così la sua celebre hit del decennio prima. Vero e proprio tributo a uno dei padre putativi del Rock n Roll. Sfrenato e carico di riff. Una versione davvero formidabile che avrà lasciato a bocca aperta anche i suoi genitori biologici, il duo Blackwell – Marascalco. Il quinto brano è Penthouse Paper. Anche qui è il blues a farla da padrone, con la chitarra di Fogerty in assoluta evidenza e un riff che ricorda I Ain’t Superstitous di Howlin’ Wolf. Quindi giungiamo al sesto brano: Proud Mary. E qui il titolo non necessiterebbe nemmeno di un corollario. Tanto famoso e coverizzato è il pezzo. Una hit che più hit non si può. Il primo vero grande “successo” di Fogerty. Semplicemente una delle canzoni più famose, vendute e cantate al mondo. Stavolta non c’è ombra di blues. Raccontando la storiella di questa Mary, volitiva ed emancipata, il cantautorato americano si veste di country rock dopo decenni di blues nero. Ed al famigerato blues (nello specifico rhythm n blues) si torna con il brano che chiude l’album. Keep On Chooglin. Oltre 7 minuti di assoluto godimento. Ritmo incalzante e sfrenato, e un’armonica alla Canned Heat. Un finale quasi hard rock. Un brano che conferma l’anima nera di questo loro secondo lavoro, il più “Delta del Mississipi” della loro carriera. Un album scritto e realizzato in pochissimo tempo. Che ha bruciato i tempi e che con altrettanta rapidità si è imposto prepotentemente all’attenzione del mondo del Rock.

Sara Fabrizi

Elephant Brain – Elephant Brain EP (2015)

Mi trovo a fare una brevissima recensione sugli Elephant Brain, più precisamente per il loro Elephant Brain EP uscito a novembre di quest’anno.
Di cosa si tratta?
Parliamo di un gruppo di Perugia nato nel giugno del 2015 e composto da cinque ragazzi classe 92 (Vincenzo Garofalo, Andrea Mancini, Emilio Balducci,Giacomo Ricci e Michele Giovagnoni).phpThumb_generated_thumbnailjpg (1)
Mi sbilancio subito dicendo che il loro stile mi piace; so che spesso alle band non piace essere accostati a gruppi già esistenti, ma da grande fan dei Ministri ho ritrovato negli Elephant Brain quella spinta innovativa, sia nei testi che nella musica, troppo spesso assente nel panorama musicale italiano.
Si parte subito con il brano 15 Bis che alterna il ritornello (“non esisti più, non esisti più tra me”) a strofe via via più “arrabbiate”, con la batteria che si mostra molto presente a frasi alterne (“ecco che ci sei, carica di nugoli”, durante l’ultima strofa, viene messa in risalto proprio grazie a questa alternanza).
Nella gravità parte in quarta, un basso che la fa da padrone durante la prima parte ed un cambiamento di stile intorno ai 2 minuti e 10, molto orecchiabile e con un testo abbastanza criptico come piace a me.
Tenda è più tranquilla, con un cambio di tempo intorno ai 50 secondi. Torna ad essere più ritmata intorno a 1 minuto e 50, lasciando sospesa la frase “e penso che avremmo potuto fare qualche cosa in più”, per poi lasciare la parola alla musica nella chiusura.
Blu è il brano che più accomuno allo stile dei Ministri precedenti all’ultimo album. Testo sempre criptico, riff che ti entra facilmente in testa e non se ne va. Mi è piaciuta molto la parte finale “Ero solo stanco di farmi curare così, di sentirmi solo in mezzo a tanti alberi. Per non perfermi cambierò così come se i semafori si accendessero di blu”, che fa terminare improvvisamente la canzone.
Dunque, tirando le somme? Un ottimo EP, spero vivamente di ascoltare un loro album full lenght il prima possibile e faccio gli auguri a questi ragazzi che hanno la mia stessa età e stanno provando ad uscire dagli schemi, cosa molto rischiosa ma molto interessante.

Continuate così!